Friedrich Nietzsche ha scritto un libro intitolato Ecce homo: come si diventa ciò che si è. Mi piacerebbe pensare che Elodie è sulla strada giusta per diventare ciò che è destinata ad essere: una cantante oltre che un’interprete. La ragazza coi capelli rosa che ad Amici cantava le cover del repertorio melodico italiano appartiene ormai al passato. Era tutta finzione, dice lei ora, raccontando di aver recitato una parte per paura di non piacere a quel pubblico del talent che l’avrebbe di certo disprezzata se l’avessero conosciuta per quello che è davvero. Elodie è tanto, tanto altro. E proprio non riesce a stare alle condizioni di quel mondo che la vorrebbe ancora abbracciata alle dinamiche televisive da cui è uscita. Ha distrutto e ricostruita se stessa, e si presenta al pubblico per la prima volta. This Is Elodie non è solo il titolo del suo nuovo album, è un manifesto. Un punto di partenza. L’inizio di un viaggio. Non è il primo disco ma è come se lo fosse, perché è arrivato dopo due anni passati a conoscersi e a riscriversi da capo.
Ne esce fuori un’Elodie sicura del proprio progetto artistico, che rifiuta le etichette di un genere musicale a cui non sente di appartenere, e si confronta con un caleidoscopio stilistico ben fatto. La voglia di “fare la differenza” esce fuori anche nelle scelte discografiche: prossimamente protagonista del palco di Sanremo, decide di non pubblicare il disco durante la kermesse, ma di anticiparlo alla settimana prima, senza il pezzo che presenterà al festival, Andromeda; un brano che porta due firme molto importanti, quella di Mahmood, che esce trionfante dal suo ultimo Sanremo e del produttore Dardust. Non sono i soli autori a comparire nel disco. Anzi, in realtà i due sopra citati sono in ottima compagnia. Sono infatti settantatré – tra autori, produttori e ospiti – gli artisti che firmano questo progetto discografico, settanta pezzi provinati e sedici incisi. Numeri grossi, da far impallidire anche le migliori produzioni americane. Ed è proprio leggendo questi numeri che penso che questo album non brilla come dovrebbe.
Mi spiego meglio: possibile che tutti questi artisti non hanno realizzato l’album del decennio? Tipo schierare gli Avengers per combattere, non so, l’elettorato di Adinolfi, che si può contare sulle dita di una mano. E se non devi salvare il mondo, che senso ha schierare tutti questi supereroi? Una produzione così imponente si porta dietro anche i relativi costi in termini di aspettative e l’album di Elodie, per quanto ricercato, attuale e radiofonico, non spicca al primo ascolto. E neppure al secondo. Ha bisogno di una lenta digestione, tipo il pranzo della domenica cucinato dalla nonna. Uno dei motivi è la presenza dei singoli che in questi due anni ci ha proposto col contagocce (Nero Bali, Rambla, Margarita e Pensare male). Bellissimi pezzi, che hanno fatto ballare tutti, chi più e chi meno, ma nello stesso disco diventa un’indigestione discografica senza precedenti; un po’ più di un album, un po’ meno di un greatest hits. La loro presenza spegne, in un certo senso, le altre tracce completamente inedite del disco.
Tutta la prima parte del disco è caratterizzata da sonorità più urban, con predominanti contaminazioni hip hop. Di questa prima batteria fanno parte i due singoli promozionali, Non è la fine con il rapper Gemitaiz e Mal di testa con (nientedimenoché) Fabri Fibra. Scelta assolutamente discutibile, perchè Elodie rimane monocorda in questi pezzi. Probabilmente era più importante farla uscire cool e al passo con i tempi, piuttosto che dare la giusta importanza alla sua capacità espressiva, un po’ come scegliere una tuta della Lotto per un primo appuntamento, quando nell’armadio hai Vivienne Westwood. Discutibile. A tratti inspiegabile.
Eppure di belle tracce ce ne sono tante, prima fra tutte un duetto (Sposa) squisitamente pop con Margherita Vicario, altro nastro nascente della musica leggera italiana, la più radiofonica, Superbowl, che unisce elettronica ad un testo dalle tinte quasi indie, per non parlare di Lupi mannari, che si preannuncia la naturale prosecuzione di Margarita (e vedrete che la canteremo per tutta la prossima estate, non serve essere Nostradamus). Il disco si conclude con un brano che porta la firma di Levante, In fondo non c’è: un pezzo che si discosta molto dalle altre tracce, lasciando ampio respiro ad un’Elodie più intima, meno denzereccia. L’album è bello, anche se non è il prodotto discografico dell’anno. Lei è brava, bella, con uno charme ed una femminilità sottile che sa incantare. Siamo sicuri che incanterà anche l’Ariston. E se fosse proprio lei la prossima vincitrice?