Patti arriva a New York nel 1967 senza un soldo in tasca ma con la determinazione e la consapevolezza che lì, in quella metropoli aspra e stimolante al tempo stesso, diventerà non soltanto grande, ma anche un’artista. Patti quindi decide di partire in direzione New York per cambiare la sua vita e inseguire i suoi sogni. L’America è il paese dei sogni per eccellenza ma anche quello degli incubi peggiori, basta una piccola mossa falsa e il destino ti volta le spalle. O forse, semplicemente, ti rende più forte e più determinata. Patti a New York ci arriva a 19 anni, non conosce nessuno, ha pochissimi soldi in tasca e non sa dove trascorrere la notte. Le prime sere dorme a Central Park che nonostante abbia una fama sinistra, soprattutto di notte, la conforta e la protegge con i suoi immensi spazi. Sembra un paradosso, ma è proprio il parco più grande della città, il più pericoloso, a nascondere e cullare Patti nelle sue prime nottate metropolitane: «New York mi ha sempre affascinato», ricorda Patti. «Con me è sempre stata amichevole. Ho dormito nei parchi, e per le strade ma nessuno mi ha mai fatto del male. Vivere qui è come stare in una grande comunità». Ciò che la spaventa, anzi la terrorizza, è di non essere all’altezza delle sue aspettative: «Ero ben consapevole che l’arte è creata dagli esseri umani, che essere un’artista voleva dire vedere ciò che gli altri non riuscivano a vedere. Non avevo prove di avere la stoffa dell’artista, ma volevo esserlo con tutta me stessa. Mi chiedevo se lo meritassi davvero di essere un’artista; non mi preoccupavo delle sofferenze che una vocazione avrebbe comportato, ma piuttosto ero terrorizzata di non sentire la chiamata. Qui però, a New York, ho scoperto che dentro di me c’era un mondo di favole».
È in questa città che vuole vivere Patti Smith, è in questo mondo che vuole trasferirsi: “New York – scrive Patti in Just Kids – era una città vera, ambigua e sensuale”. Ma è soprattutto l’atmosfera che si respira a New York che colpisce e stordisce Patti. Quando arriva a Washington Square, al centro del Village, racconta: «Entrando nel perimetro dell’arco bianco, venivi salutata dal suono dei bongos e delle chitarre, dai cantanti di protesta, dalle discussioni politiche, dal volantinaggio degli attivisti, da vecchi giocatori di scacchi sfidati da quelli giovani. Questa atmosfera aperta era qualcosa che io non avevo mai vissuto, la semplice libertà che non opprimeva nessuno». Patti osserva quella piazza e le vengono subito in mente i personaggi di Henry James, percepisce la presenza dello stesso autore e mille altri rimandi e stimoli culturali che la infiammano e la convincono di aver fatto la scelta migliore, nonostante le difficoltà e la fame. Sì, la fame perché Patti Smith nei suoi primi giorni newyorkesi (che durano a lungo), non ha soldi nemmeno per mangiare. «Tutto quello che ho sempre voluto fare nella mia vita era l’artista, e sapevo che ci sarei riuscita anche se non avevo il denaro per frequentare una scuola d’arte o l’università». Ed è così che sarà. Patti è una spugna che assorbe qualsiasi stimolo artistico, si sofferma su ogni minimo dettaglio che possa fornirle un’ispirazione, compra fogli e matite, quaderni e block notes, tutto ciò che le serve per scrivere e disegnare, annotare e comporre. New York diventa il suo habitat naturale, il suo mondo, il suo palcoscenico, la sua scuola.
New York all’epoca è la città di Bob Dylan, di cui Patti è una fan da quando era ragazzina; di Allen Ginsberg (che Patti conosce davanti a un distributore automatico di sandwich e bibite, lei affamata rimasta con 50 centesimi e lui, che la scambia per un ragazzo, le dà i 10 centesimi mancanti per comprare un panino e aggiunge anche i soldi per un caffè); dei Velvet Underground; delle proteste contro la guerra in Vietnam e della nascita del movimento per i diritti degli omosessuali con i moti di Stonewall. È vero che New York in questo periodo è una città sporca e violenta, ma è anche vero che sia altrettanto viva. Chi ci abita, la descrive come un posto favoloso in cui stanno avvenendo cambiamenti epocali, dove il pensiero comune è progressista, democratico e radical, dove l’establishment e il pensiero dominante vengono contestati e rifiutati. Ci sono movimenti per la pace, contro la guerra, per la libertà e tutti sono accettati. A New York c’è un grande fermento creativo che si riversa per le strade. Tutti i migliori suonano nei bar del Greenwich Village e della Lower Manhattan, oppure all’Apollo Theatre di Harlem: a cominciare da Bob Dylan e Pete Seeger per passare a Jimi Hendrix, James Brown, John Coltrane, Cecil Taylor. Sono tutti qua e tutti passano da qua. Ci sono i poeti che recitano i loro versi nelle strade o nei parchi, ci sono anche molte droghe, dalla marijuana agli acidi teorizzati da Timothy Leary, secondo cui l’assunzione dell’LSD nei giusti dosaggi e in contesti adeguati, aumenterebbe la percezione della realtà circostante, ampliando le potenzialità della mente umana. Ci sono continue dimostrazioni che uniscono moltissimi ragazzi di estrazione sociale e provenienza diverse che protestano contro le ingiustizie e a favore dei diritti civili.
È evidente che Patti Smith sia in cerca di libertà, non giurerei invece sulla ricerca della fama ma certo è che Patti è destinata a lasciare un segno: «Ho sempre fatto quello che volevo fare – dichiara in un’intervista in tv – e sono sempre andata avanti per la mia strada». È quindi in questo ambito di estrema creatività e libertà che Patti Smith muove i suoi primi passi da artista. Le sue prime composizioni non sono canzoni ma poesie, appunti di viaggio, considerazioni e stimoli personali che si imprimono sulla pagina. Ma sono anche disegni, ritratti; quegli stessi stimoli che riceve dalla città e dal suo compagno e sodale Robert Mapplethorpe, Patti li trasferisce in immagini impresse su taccuini e tele. Le sue poesie sono ispirate da Rimbaud e da Blake, dal suo amore per la Francia e per l’atmosfera che si respira a New York. Quando scrive, Patti mette insieme i suoi pensieri, le sue suggestioni, le sue emozioni, e New York – quella degli anni Settanta – è la migliore fonte di ispirazione per un’artista come lei. Quando oggi parla di quel periodo, ne parla in questi termini: «un tempo il passaggio di così tanti eventi, piccoli e grandi, ha gettato un’ombra illuminante sul nostro percorso disseminando la nostra strada di immagini e spingendo il nostro cuore sul fondo delle nostre scarpe». Un periodo soprattutto in cui «semplicemente tutti i miei amici erano vivi». Gli anni Settanta sono gli anni della gioventù di Patti, sono quelli della poesia, della ricerca, della sperimentazione, dell’arte per amore dell’arte, della passione – sentimentale e artistica – con Robert Mapplethorpe. Sono anni intensi che Patti Smith ricorda come «un grande film in cui ho recitato una parte. Una piccola parte. Ma una parte che tuttavia non reciterò mai più». L’arte, per Patti, e la poesia sono elementi essenziali su cui si basa tutta la sua vita.
Estratti dal libro “Patti Smith. La forza della parola” di Patrizia De Rossi.