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Lemmy Kilmister, gli ultimi giorni del pirata del rock & roll

Il leader dei Motörhead ha vissuto settanta anni sulla corsia di sorpasso e se n’è andato via come solo lui poteva fare: il racconto degli ultimi giorni

«Danny, per favore, dammi una mano a smontare il videopoker: dobbiamo portarlo a casa di un amico». «Mikael, ma che stai dicendo? Davvero vuoi smontarlo?». «Senti: se non sbaglio, sono io quello che dà gli ordini». Mikael Maglieri è nervoso. Con un gesto di stizza ha staccato la spina di quel gioco piazzato di fianco al bancone del suo locale, il Rainbow Bar and Grill a West Hollywood, nel cuore del Sun-set Strip. Quell’amico, appena uscito dall’ospedale, è messo male e gli ha chiesto un favore: avere a casa sua il videogame con cui si divertiva ogni volta che poteva. «Credo mi farebbe bene, sicuramente mi distrarrebbe», gli aveva detto. E Mikael lo vuole accontentare. Quando il suo amico saliva al piano superiore del Rainbow e si attaccava a quel cavolo di gioco, ci passava le ore lubrificando il tutto. Nessun dubbio: per lui, il videopoker era più efficace di una seduta psichiatrica. Quel tizio abita lì a due passi, in un normalissimo condominio al 1010 di Hammond Street, una piccola traversa del Sunset Boulevard. Si è insediato in quella zona nel 1990, quando ha lasciato la natia Inghilterra per trasferirsi a Los Angeles «salvando la mia carriera», era solito dire, aggiungendo che da lì a piedi poteva arrivare con facilità nei suoi posti preferiti. E il Rainbow era uno di quelli. Una volta estratta la consolle, Maglieri raggiunge l’abitazione dell’amico malato. L’uomo è a letto, ha un aspetto orribile e quasi non riesce ad articolare le parole, mentre risponde a una telefonata.

«Pronto Ozzy, sei tu? Parla più forte», chiede farfugliando al suo interlocutore. Poi, dopo un paio di minuti di silenzio, annuisce e chinando il capo dice: «Ok, ci vediamo». E riattacca. Dall’altra parte della cornetta, c’è un vecchio compagno di avventure, uno con cui per quaranta anni ha battuto i sentieri selvaggi del rock & roll: un certo Ozzy Osbourne. «Sharon, andiamo subito da Lem, sta malissimo», dice Ozzy alla moglie. Gli Osbourne vivono in una maestosa villa con piscina da 12 milioni di dollari a Hidden Hills: o sei un rich and famous oppure manco ci metti piede, lì dentro. Mentre stanno salendo in auto, Sharon Osbourne ha una premonizione. «Ozzy, rassegnati, non c’è più niente da fare». «Lemmy, come stai? Ho portato il tuo ace of spades preferito». Maglieri guarda con preoccupazione il suo amico che però, alla vista del videogame, sfodera un gran sorriso. «A volte si vince, altre si perde, per me non c’è differenza», gli canticchia Mikael citando il classico dei Motörhead. Già, perché quel suo amico è proprio il grande Lemmy Kilmister, il frontman dei Motörhead. La settimana precedente si era sentito male: forti dolori al petto, tanto che il suo manager, Todd Singerman, aveva temuto si trattasse di un infarto. Trasportato al pronto soccorso, Lemmy era stato dimesso il giorno dopo. Eppure Singerman non era affatto convinto, così l’aveva convinto a farsi una lastra alla testa. Il referto era stato inquietante: si notava una massa nera che dal cervello si estendeva sino al collo.

«Ero lì con lui – ricorda Todd Singerman – quando il dottore gli ha detto: “Lemmy, non voglio raccontarti balle. È un brutto tumore, purtroppo, talmente esteso che non c’è più niente da fare. Ti mentirei se ti dessi qualche speranza. Sarà questione di poco, da due a sei mesi”». «Ah, due mesi soltanto?», aveva commentato Lemmy senza scomporsi più di tanto. Lemmy aveva voluto telefonare ai suoi soci dei Motörhead, ma poi, nella mattinata di lunedì 28 dicembre, e cioè da quando Maglieri gli aveva portato il suo videogame preferito, non si era più staccato dallo schermo: aveva giocato per quasi quattro ore consecutive. «Ehi Lem, fai una pausa», gli dice Mikael pensando che il suo amico abbia bisogno di un po’ di riposo. Lemmy fa un cenno affermativo con la testa e, di lì a poco, si addormenta. Per non risvegliarsi mai più. «Ero lì, a un metro da lui – racconta Maglieri – quando ha smesso di respirare». Mikael è figlio di Mario Maglieri che, immigrato negli Stati Uniti negli anni Venti dalla Basilicata, è stato uno dei più leggendari inventori di club musicali d’America. Dopo essersi fatto le ossa in alcuni locali di Chicago, a metà anni Sessanta ha aperto il Whisky A Go Go prima e il Roxy poi. E proprio al Whisky, domenica 13 dicembre, Todd Singerman aveva voluto organizzare un grande party per i settanta anni di Lemmy. Sul palco del Whisky erano saliti – tra gli altri – Slash, Steve Vai, Billy Idol, Steve Jones dei Sex Pistols e Duff McKagan dei Guns, mentre su uno schermo venivano proiettati video messaggi di auguri da parte di Iggy Pop, Billy Gibbons, Gene Simmons e Tom Morello.

Il festeggiato appariva magro, strapazzato e leggermente claudicante. La mano destra tremava in modo visibile e un bastone lo aiutava a reggersi in piedi. Vestito con la classica uniforme alla Lemmy (giaccone di pelle nero e cappello d’ordinanza), si era sistemato al posto d’onore, nella piccola balconata di fronte al palco. Di fianco a lui l’amico Lars Ulrich, batterista dei Metallica. Ogni tanto qualche compagno d’avventure, come Sebastian Bach, lo raggiungeva per un rapido saluto. Lemmy avrebbe anche dovuto fare un paio di brani con gli Head Cat ma, alla fine, non se l’era sentita. Raggiunto da Sorum verso fine serata, alla domanda se si fosse divertito, aveva risposto con un sintetico, ma significativo: «Oh yes, it’s fucking great!». È stata la sua ultima dichiarazione pubblica. Perché, come ha detto l’amico Earl Brown: «Lemmy ha compiuto settanta anni il 24 dicembre, scoperto di avere un cancro il 26 ed è morto il 28: non c’è che dire, una cazzo di uscita di scena alla Lemmy. Non ce ne sarà mai più un altro come lui… il suo stampo non si è rotto, si è semplicemente sciolto quando lui ne è uscito». Alla fine, Lemmy se n’è andato come voleva, con gli stivali ai piedi, lasciando un mondo un po’ meno interessante e molto, molto più tranquillo.