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Era giusto fare “Space Jam: New Legends”, ma farlo sul serio

Fra i molteplici tabù che ancora attanagliano i nostri tempi c’è l’autoerotismo. Nonostante fosse già in uso ben oltre 20000 anni fa, la divulgazione del dialogo sulla masturbazione, sia maschile che femminile, oggi viene costantemente condannata e ostacolata da numerosi obiettori di coscienza di matrice religiosa e morale. Fortunatamente, il grande lavoro svolto dalla sessuologia moderna, l’educazione sessuale e la divulgazione e promozione da parte di personaggi e studiose illustri hanno contribuito a indebolire ulteriormente l’inibizione legata alla masturbazione che ancora oggi ci condiziona, mostrandone anche gli aspetti positivi, sia da un punto di vista psicologico e mentale che fisico e salutistico. Sicuramente, fra i maggiori promotori spicca la Warner Bros, la quale con Space Jam: New Legends compie un atto totale di masturbazione autoriferita nei confronti di tutto il suo background produttivo dal 1923 a oggi. In quello che dovrebbe essere un sequel del film cult del 1996, molte delle energie sono state spese per dare spazio a un gigantesco luna park a tema Warner Bros – un po’ come accadde qualche anno fa con Ralph Spacca Internet della Disney.

E in questa pessima scelta di stile, a farne le spese è l’intero film, il quale, alla fine dei conti, risulta inutile e sconclusionato. È un film che non punta sull’effetto nostalgia, o per lo meno, non ci riesce, e che difficilmente potrebbe affascinare le nuove generazioni, col risultato di non avere un pubblico chiaro a cui rivolgersi, a differenza del vecchio film con Michael Jordan. Quest’ultimo, infatti, per quanto non fosse un film perfetto, aveva una forza dovuta soprattutto al legame stretto con gli anni Novanta, il quale lo ha reso uno dei cult pop di spicco di quel periodo. Andando nello specifico, in Space Jam: New Legends la storia fa acqua da tutte le parti, un po’ come il personaggio doppiato tristemente da Fedez. A patto della sospensione dell’incredulità, la quale permette di accettare un mondo nel quale umani e cartoni animati convivono insieme, tutto il resto non segue neanche una legge interna dettata dallo stesso film. E ciò che rientra nei binari della coerenza pecca di poca originalità.

Il rapporto padre/figlio tra LeBron James e suo figlio Dominic è quanto di più visto nella cultura pop. Il loro conflitto, basato sulle diverse aspirazioni dei due, viene alimentato dal tanto malvagio quanto di poco spessore villain, Al-G Rhythm, l’algoritmo a capo degli universi della Warner interpretato da Don Cheadle. La sua buona interpretazione non riesce a salvare o a dare mole a un cattivo con poche motivazioni. Al contrario, LeBron James non riesce a tenere testa al proprio personaggio, il quale, per quanto banale, risulta essere coerente. Il campione, difatti, dimostra scarse capacità attoriali. Come egli stesso dice all’inizio del film: «Quando gli atleti recitano, non finisce mai bene». Se solo avesse seguito il suo stesso consiglio, LeBron James si sarebbe risparmiato la partecipazione a un film che punta a soddisfare le aspettative dei millennials e della generazione alpha, fallendo in entrambi i casi, e che ha come unica nota positiva la resa grafica della tecnica mista e qualche guizzo di ilarità.