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“Back to Black” non delude, ma senza brillare

Siamo rimasti delusi? No. Ci aspettavamo di più? Sì. Tuttavia, “Back to Black” riesce nell’arduo compito di narrare quel tumulto distruttivo che ha plasmato la vita di Amy Winehouse

Ci sono dei momenti della vita in cui è chiaro che le cose non accadono per caso. Coincidenze, per lo più, simultaneità che durano la frazione di un secondo, ma che offrono una prospettiva nuova sulle cose. Subito dopo l’anteprima del nuovo biopic su Amy Winehouse sono partito con un volo diretto per Bucharest. Passando in rassegna i volumi più compatti della mia libreria, ho optato per La leggenda del santo bevitore, di Joseph Roth. Sull’aereo mi sono reso conto che quel libro è in realtà un utile compendio per analizzare e dare una chiave di lettura a questo nuovo film. Ve ne riporto un estratto: Si sedette dunque. E siccome davanti al suo posto c’era uno specchio, non poté evitare di osservare il suo viso, e fu come fare di nuovo conoscenza con sé stesso. La cosa lo spaventò; e subito comprese perché negli ultimi anni aveva tanto temuto gli specchi. Non era bene vedere coi propri occhi la propria rovina. E finché non ci si doveva guardare, era come se non si avesse affatto un viso o si avesse ancora quello antico, che risaliva al tempo prima della rovina.

Quando si prova a tratteggiare la vita di un mito, come è stato fatto precedentemente anche con Freddie Mercury, non ci si può limitare alla cronaca dei fatti, perché quella è di dominio pubblico. È piuttosto emersa l’urgenza di trovare una chiave di lettura altra, un modo di raccontare nuovo, e per questo inedito. Ma ahimè, Sam Taylor-Johnson, che ha diretto Back to Black, non ha inserito niente di davvero inedito in questo film, ma attraverso il libro di Roth sono riuscito a rivalutarne positivamente un aspetto centrale: la delicatezza con cui si rapporta alla rovina. Un garbo, questo, non nei confronti di Amy, ma nei confronti della rovina in sé. Marisa Abela interpreta magistralmente una Amy Winehouse alle prese con il successo, con l’amore, ma anche con l’abuso e con la dipendenza. La sua presenza è costante all’interno del film, tanto che non ci sono frame in cui lei non sia al centro della scena. Nonostante questo, però, si ha la sensazione che in realtà si perda un po’ di vista la complessità e le sfaccettature artistiche di Amy, preferendo una linearità utile al fine esclusivo di farne un prodotto cinematografico.

È come se, in effetti, Amy non fosse la protagonista del film, piuttosto un espediente, un modo come un altro per raccontare una storia di semplice autosabotaggio. Ma quella di Amy non è una storia di semplice autosabotaggio. Le responsabilità della sua fine sono tante, e da distribuire a chi aveva tutto l’interessa di vederla “esplodere” come un fuoco d’artificio – breve, ma luminosissimo. C’è una cosa che però ho apprezzato moltissimo, e si tratta della centralità data alla sua musica. C’è un giusto contrappunto fra la storia raccontata ed il contenuto delle canzoni. I capolavori che Amy ci ha lasciato nella sua breve e folgorante carriera, sono usati all’interno del film con singolare intelligenza emotiva. Le canzoni, più che raccontare un momento, ne sottolineano il valore, come se seguissero la vita interiore dell’artista piuttosto che l’ordine cronologico con le quali sono state composte. Il risultato mette ancora più in risalto Marisa Abela, che sfodera una vocalità strepitosa che in certi momenti ricorda molto quella di Amy, senza però mai sfociare nel fenomeno serata cover band a Ladispoli.

Altro apprezzamento è da farsi sulla scelta del materiale da raccontare. Sarebbe stato facile fare un film sull’Amy dell’ultimissimo periodo, quella che non riusciva a portare al termine un concerto. Il film sceglie invece di raccontare quell’Amy che in realtà avrebbe tanto voluto cantare, se solo avesse avuto il tempo e la possibilità di farlo. Insomma, Back to Black è un bel film, pieno di buone intenzioni (da apprezzare). Un film senz’altro impegnativo, perché costringe lo spettatore a guardare in faccia quel domino di distruzione disarmante che ha caratterizzato la vita di Amy. È uno specchio con cui misuriamo anche noi stessi, nella distanza che ci separa dal baratro scuro in cui qualcuno è caduto. Joseph Roth, a ragione, la chiama “rovina”. Io, che ho a disposizione qualche carattere in più, la chiamo – ecco cosa succede quando smetti di volerti bene.