dark mode light mode Search Menu
Search

In “Povere creature” c’è tutta la poetica di Yorgos Lanthimos

Yorgos Lanthimos con “Povere Creature” non scende a compromessi, non facendo proprio nulla per provare a piacere a chi non apprezza la sua unica ed inimitabile poetica

Quasi duecento anni fa la scrittrice Mary Shelley componeva giovanissima il celebre romanzo gotico Frankestein o il moderno Prometeo. Nelle sue pagine uno scienziato giocava a fare Dio creando, senza sentimento e all’inseguimento di un mero trionfo scientifico, un mostro senza nome, espressione della paura del tempo per lo sviluppo tecnologico quanto dell’atavica angoscia per la fragilità della condizione umana, indifesa di fronte ad una imprevedibile mostruosità. Oggi Yorgos Lanthimos (The Lobster, La favorita) riscrive il famoso racconto ribaltandone alcuni stilemi: ad essere deforme non è più il mostro bensì lo scienziato, Godwin Baxter (Willem Dafoe), nomen omen, mentre femminili e bellissime sono le fattezze del suo “mostro” Bella Baxter (Emma Stone) – altro nome non casuale – creatura che lo scienziato crescerà però con premura e affetto, come una vera figlia.

Bella è una bambina immersa in uno splendido corpo adulto, conseguenza della sua terribile creazione. Il dottor Baxter aveva infatti ripescato il corpo della donna incinta, morta suicida nelle fredde acque del Tamigi, decidendo di riportarla in vita sostituendo il cervello di Bella con quello del figlio che portava in grembo. Questo ammasso di giovani neuroni renderanno Bella bramosa di conoscenza, un desiderio che deflagra un giorno a tavola, con la scoperta delle potenzialità del suo corpo, dei propri genitali e del piacere sessuale. La reazione a catena innescata dall’intenso piacere fisico la spingono a viaggiare per un’Europa a tratti Ottocentesca e Vittoriana, ed in altri kitsch e fiabesca, insieme ad un improbabile compagno di viaggio, l’avvocato Duncan Wedderburn (Mark Ruffalo), rinomato sciupafemmine e stereotipo di una maschilità tossica. Per colpa o per fortuna dell’infantile cervello che in lei dimora Bella si comporta in modo anarchico sfidando apertamente ed inconsapevolmente ogni etichetta dell’alta società borghese. Sentendosi più libera e bella quando è nuda la giovane creatura si libererà, nella teoria e nella pratica, di ogni corsetto che la opprime, finendo per spezzare una catena dopo l’alta.

Nessuna filosofia e categoria esistenti sembrano capaci di racchiudere la personalità del meraviglioso mostro, la perdita delle inibizioni nell’uso del proprio corpo è sufficiente per mandare in cortocircuito tutti gli assunti maschili dominanti nella società, è così che l’emancipazione intellettuale femminile si rende inscindibile da quella sessuale. Una rivoluzione in piena regola accesa senza slogan ed ideologie, promossa semplicemente assecondando la propria natura. Tra inquadrature fish eye, grandangoli e dal basso nella pellicola Leone d’Oro a Venezia si avverte forte il peculiare timbro del registra greco: dalla forte vena ironica anticipata in La favorita al tentativo degli esseri umani di controllare gli altri e provare a isolarli presente nei più datati Dogtooth, The Lobster e Il sacrificio del cervo sacro. Un film travolgentemente brillante – che solo nel suo ultimo terzo perde un po’ della sua forza propulsiva – e che non scende a compromessi, non facendo proprio nulla per provare a piacere a chi non apprezza la sua unica ed inimitabile poetica.