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Tutti gli album dei Daft Punk dal peggiore al migliore

4. Human After All

Anno 2005, il duo francese, in occasione del terzo lavoro in studio approda tra gli esseri umani, rivendicando la sua stessa natura: riff di chitarra (quelli di Robot Rock) e tastiere pop di Make Love fanno capolino per la prima volta insinuandosi tra le technocampionature e vocoder, attribuendo un’umanità riscoperta sotto quei caschi da cyborg. Sembra quasi che i Daft Punk vogliano abbattere ogni barriera, per non rimanere intrappolati in un’unica identità, quella che li ha resi noti con i precedenti lavori; una ribellione all’elettronica pura, alle macchine, ai robot ed alla tecnologia. Human After All lo fai scorrere nelle cuffie come quando ai tempi, impaziente, giravi la manopola alla ricerca della stazione radio preferita e della canzone che, con ansia, aspettavi di riacchiappare. Tra una pubblicità e una voce del dj in voga, ti fermi per qualche minuto, per poi spegnere. On/Off.

3. Random Access Memories

Memoria ad accesso casuale. È questo ciò di cui si sono serviti i due parigini per ottenere un successo planetario da record. Un ripescaggio random tra le sonorità degli album ormai alle spalle; una rielaborazione consapevole e matura di quanto fatto finora. I Seventies, quelli ballabili, incontrano il funk, l’elettronica e la techno, in una veste lounge, dando in pasto alle masse generi di nicchia, ormai sdoganati e apprezzati dai più. I caschi scintillano in un nuovo mondo patinato, al suono dell’inconfondibile timbro di Pharrel Williams (in Get Lucky e Lose Yourself to Dance), lanciano cenni d’intesa al vecchio mondo indie con la voce di Julian Casablancas (Instant Crush) e le sonorità di Doin’ it Right;  azzardano un salto nel genere cinematografico (Touch) scrivendo quella che poi, inconsapevolmente, diventerà la colonna sonora ufficiale del triste epilogo dei Daft Punk. Elementi kitsch e barocchi disseminati in un’oretta di album, per cui ai tempi si è creato grande hype. L’attesa ne è valsa la pena?

2. Homework

Due caschi, uno dorato, l’altro argentato debuttano sulla scena musicale dando il via ad una Revolution 909 di fine Novanta, lontana certo per genere e tempo da quella celebre beatlesiana, ma pur sempre di notevole impatto. Sedici brani, un concentrato di suoni che si dischiudono in un’esplosione di dance anni Settanta, synth pop dei più recenti Eighties e acid house, per un’ora e quattordici minuti di godibilissima elettronica. Una perfetta rielaborazione di sonorità gentilmente concesse dai noti Kraftwerk, rinnovati e riadattati ad un nuovo secolo. Una ciclicità di suoni e voci, ossessionanti ma non ossessivi. A metà album si entra nel vivo: sembra di essere capitati in un club, dove, ora con i rumori della città, ora con le onde del mare in sottofondo, non ti chiedi quanti sono i minuti passati, ma muovi la testa e ti lasci incastrare in un tunnel sonoro ipnotico. Il sali/scendi del videoclip, magistralmente diretto da Michel Gondry, sembra far risuonare l’assillante ripetizione All Around The World anche premendo il tasto mute. I Daft Punk, gli stupidi teppisti, erano quello di cui la musica aveva bisogno.

1. Discovery

A tre anni dal debutto, i Daft Punk hanno ben chiara la direzione da prendere e convincono senza ombra di dubbio, decretandosi re indiscussi del dancefloor dei primi Duemila. Sembra di ascoltare un party estivo in spiaggia, di percepirne le sfumature, i colori, la spensieratezza e la quiete notturna. I sintetismi, il suono che progressivamente si apre ad orecchiabilissimi riff dance-pop, l’autotune sdoganato come segno distintivo, tutto mescolato e rielaborato secondo il french touch, quello che rende unico nel suo genere la leggerezza kitsch del duo francese. Provate a chiedere ad un millenial una canzone dei Daft Punk. Sicuramente ne sceglierà una da questo capolavoro.