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Tutti gli album dei Tame Impala dal peggiore al migliore

Dall’ultimo “The Slow Rush”, un furbissimo mix di psichedelia e soft pop elettronico, a quel capolavoro intitolato “Innerspeaker”: il meglio e il peggio della discografia dei Tame Impala

L’Impala, che in lingua zulu significa gazzella, è un’antilope di taglia media, dalla corporatura snella, collo lungo, occhi grandi e orecchie sottili. Di indubbia eleganza ed impatto, non passa inosservato nella savana africana, suo habitat vissuto più di notte che di giorno, tra una caccia ed una corsa.  Un nome, quello dell’Impala che viene sorprendentemente, ma siamo sicuri poco casualmente, ripreso in un contesto lontano dal continente africano, dalla savana e dalla natura. L’impala arriva infatti a Perth e trasforma i suoi lunghi passi in una nuova cavalcata psichedelica, revival di un sound passato ma rivisitato in chiave anni Duemila. L’antilope in questione è Kevin Parker, giovane australiano che non fa fatica a farsi definire la next big thing dopo l’uscita del primo EP ufficiale nel lontano 2008. I Tame Impala, la one man band dal 2010 ad oggi, ha all’attivo quattro album di successo, navigando a vista in un oceano psichedelico, con ondate di funk e disco anni Settanta. 

4. The Slow Rush

A cinque anni dall’ultimo album, i Tame Impala fanno un bilancio, tra successi e critica. Se nel 2015 ci si abbandona alla corrente del cambiamento, nel 2020 si procede al lento incedere del tempo e delle cose, persi nel passato, tra rimpianti e ricordi, adottando un furbissimo mix di psichedelia dei primi tempi e soft pop elettronico delle ultime sperimentazioni. Così, per non deludere nessun tipo di aspettativa, ci ritroviamo di fronte alle più svariate influenze, a danno di chitarre che talvolta si vedono sopraffatte da tastiere imponenti e melodie acchiappa orecchie.

3. Currents

Il primo album è una roulette russa: o la va o la spacca. Il secondo lavoro è il solito bivio che ti impone la scelta di proseguire o meno sulla scia vincente del primo; ed ecco che, puntuale per la gran parte degli artisti, al terzo progetto si palesa la fisiologica esigenza di esplorare nuovi fronti. Currents rappresenta esattamente questo. Parker lascia che il cambiamento a livello personale ed artistico si impossessi della sua ispirazione: un flusso di corrente trasporta la psichedelia ‘60s verso le rive di un pop elettronico di una decade più in là. Il riverbero minimale che strizza l’occhio al french touch degli ultimi Daft Punk  (Yes I’m Changing e Past Life ne sono la dimostrazione) regala una svolta necessaria, che però lascia qua e là intatte alcune certezze stilistiche della band. In fondo, è lo stesso Parker che dissemina nelle 13 tracce indizi di grande cambiamento, con la consapevolezza di essere “una persona nuova”, che commette “gli stessi vecchi errori” (New PersonSame Old Mistakes).

2. Lonerism

«Un’occasione per sperimentare e dedicarsi completamente a melodie e progressioni di accordi pop». Così Parker definì il secondo album che completa il coloratissimo quadro di sonorità psichedeliche già presenti in Innerspeaker. Chitarre che da Endors Toi lasciano via via spazio a ritmi stratificati, tra synth e trip sonori che provocano una immediata dipendenza uditiva. Feels Like We Only Go Backwards e Elephant conducono la scena, come in un loop senza via d’uscita, mentre Apocalypse Dream e Mind Mischief propongono un inaspettato pop onirico che fa di Lonerism un disco variegato; per alcuni un miscuglio di ingredienti che sviano l’ascoltatore dalla reale essenza dei Tame Impala. Per molti altri, una riuscitissima rielaborazione e degno sequel del disco d’esordio. 

1. Innerspeaker

Premere play e lasciare scorrere le 11 tracce di Innerspeaker vuol dire entrare per 53 minuti e 21 secondi in un caleidoscopio, abbandonarsi al vorticoso incedere di colori, assumere forme ora simmetriche, ora distorte, abbagliati da riflessioni multiple di immagini e suoni. Un viaggio introspettivo, sotto effetto di stupefacenti psichedelie che benedicono la solitudine (Solitude Is Bliss) in un groviglio di echi e richiami che vanno a placarsi nelle tracce successive (vedi Jeremy’s Storm). Sembra proprio di vederla quell’antilope che in lingua zulu chiamano Impala. Si staglia elegante e fiera in chiave moderna su un vecchio e coloratissimo quadro anni Sessanta. L’accostamento non è mai stato così convincente prima d’ora.