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Tutti gli album dei Cure dal peggiore al migliore

Robert Smith e i Cure hanno saputo portare avanti la propria identità senza mai rinnegarla e farlo per trent’anni non è mica cosa da poco

Una carriera discografica di oltre tre decadi. Un percorso impervio, fatto di chiaroscuri, gli stessi che hanno dipinto cover, sonorità e capolavori senza tempo. Robert Smith e i Cure hanno saputo portare avanti la propria identità senza mai rinnegarla e farlo per trent’anni non è mica cosa da poco.

13. The Top

«Ogni band ha almeno un album brutto. Questo è il nostro». Certo, detto da chi l’ha composto e suonato in ogni sua parte, rassicura chi a più ascolti non è riuscito pienamente a comprendere la reale direzione dell’album. Un ritorno sulle scene dopo l’ufficiosa fine della band. Uno stato confusionario che si traduce in pezzi bizzarri e nosense. Una psichedelia fuori dagli schemi. Incompresa.

12. Wild Mood Swings

Che fine hanno fatto i Cure? Sembra di ascoltare una band nata in pieni anni Novanta, rincorrendo una superproduzione che riesca ad omologare il lavoro alla concorrenza. Critica e pubblico accolgono silenziosamente il ritorno di Smith, probabilmente presi dal fenomeno britpop scoppiato in quegli anni. Wild Mood Swings non è un rinnegare il passato, ma ne prende una chiara distanza.

11. The Cure

La litania che apre il dodicesimo album in studio della band britannica è eloquente. “I can’t find myself”, ripete Robert Smith. Lost è il brano di apertura di un lavoro che seppur valido, ora aperto al pop più energico, ora alla sonorità che vagamente ricorda il passato, lascia perplessi. Certo è difficile portare avanti un sound per ben venticinque anni. Difficile è anche mantenere una coerenza e riuscire ad innovarsi. Smith non trova se stesso, probabilmente perso nella produzione e nella eccessiva levigatura dei pezzi che oggi, infatti, risultano poco naturali ed incisivi.

10. Wish

Virata verso il rock ed una visione più luminosa della vita, sebbene Smith riesca sempre a lasciare intatto il suo lato tormentato (Apart). L’intro è eloquente: stavolta non siamo in procinto di affrontare tempeste interiori. I suoni aperti e le chitarre ci guidano in un percorso relativamente più facile. Una chiara testimonianza che i Cure si sono lasciati alle spalle il nichilismo di un tempo, acquisendo un nuovo modo di affrontare i tormenti dell’animo. La disintegrazione precedente regala cavalcate rock e quelle che oggi sono diventate hit alla portata del pubblico più vasto, Friday I’m in Love su tutte.

9. Bloodflowers

Quattro gli anni di silenzio. Di certo i Cure non avrebbero potuto chiudere la carriera con un album ben al di sotto delle aspettative del pubblico come fu Wild Mood Swings. E così, nel 2000, annunciato in maniera definitiva come ultimo album, Robert Smith caccia fuori nove brani che sembrano voler accontentare i fan. Una leggerezza che ripesca poco spontaneamente dalle ombre del passato. Una composizione innaturale, ottenuta da un mix forzato, per mettere su il disco d’addio che tutti si aspettano.

8. Three Imaginary Boys

Tre elettrodomestici su sfondo rosa. Tre i componenti della band di recente formazione. Tre i ragazzi di pura fantasia della title track, dall’appeal misterioso, approssimato ed acerbo. Sono ancora lontani quelli dei capolavori che di lì a qualche anno avrebbero messo a fuoco la direzione da prendere. Un debutto ben accolto all’alba degli anni Ottanta ma di cui persino Smith ammetterà di non essere particolarmente fiero. «Ovviamente sono le mie canzoni ed ero io che cantavo, ma non avevo voce in capitolo su nessun altro aspetto: la produzione, la scelta dei pezzi, l’ordine di esecuzione, la copertina – affermerà nel 2004 in un’intervista – Parry (Chris Parry, il produttore ndr.) fece tutto senza la mia approvazione. E nonostante fossi giovane, ero comunque molto incazzato». Tredici pezzi, gran parte frutto del Robert Smith 16enne, dalla forte eco post-punk dei Pistols, con quella sana dose dark che preannuncia a passo incerto il futuro imprinting della band.

7. 4:13 Dream

Tredicesimo album in studio, anno 2008. Sull’onda pop-rock, la band regala un posto accogliente in cui i fan, storici e non, possono rifugiarsi. Nessun pezzo che possa elevare questo disco a capolavoro. Un ascolto rassicurante che sembra affermare che, nonostante gli anni ed i flop precedenti, i Cure sono ancora qui.

6. Faith

Ad un anno di distanza dal precedente lavoro, Faith è il wordless scream, (quello di The Holy Hour), l’urlo di intime e tenebrose confidenze in un susseguirsi di 36 minuti di decadentismo prevalentemente strumentale. «Avevo 21 anni ma mi sentivo vecchio. Mi sembrava che la vita non avesse un senso. Non avevo fede in niente e pensavo che andare avanti fosse del tutto inutile», dichiarerà Smith sul periodo buio di inizio anni Ottanta. Voci distanti, spleen ed un tetro nichilismo fanno di questo album un profondo atto di fede in musica che attinge ora dalla letteratura gotica, ora da incubi personali e riflessioni cupe.

5. Kiss Me, Kiss Me, Kiss Me

I Cure sono ufficialmente una band da stadio e nonostante l’eterogeneità di quanto raccolto per confezionare l’ultimo lavoro discografico, non faticano a mantenere una coerenza stilistica e di identità. Ecco che le due ore e venticinque minuti scorrono senza accorgersene, rapiti da una edulcorata essenza di Pornography (The Kiss), da un pop leggero e sornione (Why Can’t I be You? e Hot Hot Hot!!!), e da una voce decisa, che diverte (Just Like Heaven). Pennellate di colore, le stesse delle labbra in copertina, raggiungono persino le orecchie più pigre. Impossibile non diventare schiavi di almeno un paio di gemme di questo disco.

4. Seventeen Seconds

Luci ed ombre, immagini che sbiadiscono al suono di synth e basici accordi di chitarra, basso e batteria. Essenzialità è la parola d’ordine. Un decisivo passo verso una maggiore maturità, nonostante Smith fosse appena 22enne. Qui, sulle grigie sonorità e sulle parole sinistre di A Forest si pongono le fondamenta di quella che definiremo, senza se e senza ma, storia della musica.

3. Pornography

Un bagliore che squarcia il buio funereo del lavoro precendente, Faith. Pornography è l’urgenza di comunicare il malessere e lo stato emotivo precario in sonorità che virano alla new wave, preannunciando una fine imminente. Visioni oscure su chitarre incisive, riverberi e batterie in primo piano. Nei mesi successivi i Cure verranno dichiarati morti, o quasi. E così l’album chiude un cerchio, assumendo tutti i connotati dell’indiscutibile capolavoro che si rivelerà.

2. The Head On The Door

L’album ufficializza una nuova formazione ed una nuova vita. Gli obiettivi sono chiari, i risultati immediati. La band raggiunge un vasto pubblico, decretando ufficialmente l’inizio di una nuova era. Decisamente più pop, senza mai abbandonare l’imprinting dark (A Night Like This e Sinking). Una malinconia dalle tinte vivaci, specchio della ritrovata serenità del gruppo e di Smith. Tra introspezione ed emozioni a suoni aperti, il disco si dischiude in perle iconiche, su tutte Inbetween Days e Close To Me.

1. Disintegration

Se vi chiedono cosa sia un concept album, l’unica risposta da dare è Disintegration. Un’opera unica, in cui ogni tassello si incastra perfettamente nel puzzle di luci ed ombre composto da Smith e co. Un flashback di chiaroscuri, quelli della prima trilogia dei Cure, dove il gotico ed il dark si fondono a sonorità pompose ed orchestrali. Qui ogni brano esiste in quanto collocato all’interno di un percorso catartico, alla fine del quale, finalmente, si intravede la luce. Un viaggio interiore da intraprendere tutto d’un fiato, struggente e profondamente malinconico. Un’ora circa di purificazione, per ripartire, disintegrare e ricostruire. Disco senza tempo. Eterno.