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“Blonde” è una strepitosa Ana de Armas tra sesso e introspezione

In “Blonde” di Andrew Dominick presentato a Venezia, l’importante non è cosa Marilyn fa, ma piuttosto cosa sente.

Si è detto e scritto di tutto riguardo alla più iconica ed avvenente sex symbol del ventesimo secolo, la biondissima Marilyn Monroe, tanto che al principio della visione di un nuovo lavoro a lei dedicato sorge spontanea una domanda: cosa è possibile ancora aggiungere al suo ritratto? Il regista Andrew Dominick (Cogan, Killing Them Softly, L’assassinio di Jesse James) prova a rispondere a questa domanda abbandonando il battutissimo percorso della biografia della patinata diva hollywoodiana per approdare piuttosto nel suo inconscio scavalcando, laddove se ne rende necessario, le anguste barriere del fatto storico, ispirato dalle pagine dell’omonimo romanzo di Joyce Carol Oates. In Blonde – in uscita su Netflix il 28 settembre – l’importante non è cosa Marilyn (una straordinaria Ana de Armas) fa, ma piuttosto cosa sente.

La bambolina sexy dietro a quei capelli troppo biondi, le labbra rosse, il piccolo neo provocante e la gonna svolazzante nasconde Norma Jean Mortenson (il suo vero nome), una ragazza che, orfana di padre e di una madre schizofrenica, ha vissuto l’esperienza dell’orfanotrofio. Norma Jean non è un po’ stupida come le fanno recitare sullo schermo in A qualcuno piace caldo, legge e apprezza Checov e sente un’irresistibile desiderio, dopo tanta sofferenza, di spiegare le ali. Questo destino tanto agognato toccherà al suo stage name Marilyn, una donna che però piega la propria volontà ai desideri lussuriosi degli uomini potenti e che con il tempo finisce per fagocitare la profonda e fragile Norma Jean, divenendo quasi la sua nemesi. L’insostenibile convivenza fra Marylin e Norma Jean farà precipitare la donna, come sua madre prima di lei, in un buco nero di psicosi e fatui desideri. Joe Di Maggio (Bobby Cannavale), Arthur Miller (Adrien Brody) e perfino il Presidente Kennedy la ghermiscono, desiderando alternativamente Marilyn o Norma Jean, senza mai comprendere però fino in fondo le ragioni che avevano generato le sue due facce.

Ecco che la diva, quasi fosse un moderno Orlando, finisce per perdere il senno e, in un torpore fatto di ansiolitici e psicofarmaci, cercare senza soddisfazione – in una delle ultime sequenze del film – il suo portafoglio, improvvisamente simbolo della propria essenza smarrita. La bicefala attrice ha però in cuor suo sempre saputo bene cosa desiderava, «quello che in fondo desiderano tutte le donne – recita in una battuta della pellicola – sistemarsi e trascorrere una vita semplice e tranquilla», e magari partorire quell’agognato bambino che per un motivo o per un altro non vedrà mai la luce. In una straniante alternanza di colori e bianco e nero la struggente verità si cela lentamente agli occhi dello spettatore; tutti volevano un pezzo di Marylin ma lei in fondo voleva solo essere Norma Jean.