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“The Car” è il riassunto dell’essenza estetica dei nuovi Arctic Monkeys

Qualunque cosa la gente dica che sia, è proprio quello che non è. In fondo lo diceva lo stesso Alex Turner del suo primo album d’esordio con gli Arctic Monkeys, citando una frase contenuta in Saturday Night And Sunday Morning, pellicola del 1960. Sono passati ben quattro anni dall’ultima uscita discografica della band di Sheffield, quattro anni di congetture e aspettative. Dopo il discusso Tranquility Base Hotel & Casino, gli Arctic Monkeys infatti non sono stati più gli stessi, per critici, fan della prima ora e detrattori. Con l’escalation dei primi cinque album, l’uno la più naturale prosecuzione e maturazione del precedente, era chiaro che Alex Turner non potesse più guardarsi indietro. Dopo AM, l’inaspettata svolta dai suoni raffinati ha segnato chiaramente un prima e un dopo e da lì nessuna inversione di marcia. The Car, il neonato progetto di Turner e soci, offre dieci tracce fruibili srotolando una vecchia e polverosa bobina anni Settanta, tra il romantico e il decadente, cullati da sonorità ben più mature e credibili rispetto al lavoro precedente.

Ad aprire il disco, una chiara dichiarazione di intenti: abbandoniamo immediatamente le aspettative di pogo da club. Sul palcoscenico, una luce calda ad occhio di bue si staglia ora sulla voce di Turner, ora sugli strumenti e l’orchestra di archi, quest’ultima grande protagonista del disco, consegnando la band a quella vecchia pellicola in soffitta, perfettamente restaurata. Ci si addentra fin da subito in una sequenza di fotogrammi ingialliti, sfrecciando a bordo dell’auto protagonista della cover scattata da Matt Helders (batterista della band). Un viaggio cinematografico, tra disco strobes, marmi polverosi e paesaggi bucolici – gli stessi che hanno visto la band registrare il disco Butley Priory nel Suffolk – con tutti i chiaroscuri del caso. Dopo aver incrociato un Turner nei panni di Bowie, sormontato da cori e chitarre funk (I Ain’t Quite Where I Think I Am), la pellicola scorre in esplorazione di godibili panorami beatlesiani (Jet Skis on the Moat e Big Ideas). Nei falsetti e negli archi che dominano la scena, c’è una teatralità tutta analogica, come nel videoclip di There’d Better Be A Mirrorball girato dallo stesso frontman con una 16 mm. Tutto è nostalgico ma tangibile. La scrittura di Turner, da sempre acuta e provocatoria, è più profonda ed il risultato complessivo è – al contrario del penultimo lavoro – decisamente più fluido e credibile.

Body Paint gioca con tastiere e chitarre sinuose, facendosi largo tra le perle del disco; The Car riassume l’essenza estetica dei nuovi Arctic Monkeys, non a caso prestando il nome all’intero album; Hello You a livello ritmico ricorda un passato recente della band, mentre l’acustica Mr Schwartz di Turner delinea un’identità misteriosa quasi autobiografica, quella di chi si fa forza per la squadra (“is staying strong for the crew”), veste un abito in velluto, indossando delle “dancing shoes” certamente familiari. A chiudere il viaggio, una buonanotte (Perfect Sense) che sa (ancora) di Beatles. Come una mirrorball, The Car mostra le sue raffinate sfaccettature. Un’eleganza rétro, mai barocca, ma intensa e profonda, insita in ogni studiatissima scelta stilistica ed estetica. Gli Arctic Monkeys stavolta vanno ben oltre i loro confini, quelli imposti dai fan e dalla critica. Sono ancora gli adolescenti fluorescenti? O sono ormai una band lounge come molti li hanno definiti di recente? Qualunque cosa si dica, no non lo sono più.