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“Songs of Surrender” è un gran bel viaggio a ritroso nella carriera degli U2

Con “Songs of Surrender”, gli U2 non hanno semplicemente dato vita ad un fan service o ad un’operazione nostalgica, hanno invece condotto ascoltatori vecchi e nuovi attraverso la storia delle loro canzoni.

Ogni volta che mi trovo a scrivere di U2, il primissimo esercizio che faccio è quello di ripromettermi di essere super partes – se possibile addirittura sforzarmi di essere un dieci percento più critico del dovuto. Perché gli U2 sono stati il mio primo concerto, qualcosa di simile al primo contatto col mondo esterno di un neonato dopo il taglio del cordone ombelicale. Ero talmente investito da tutto quel deserto che confluiva in una clessidra, per un paio d’ore, che ovviamente nulla è più stato come prima tra me e la loro musica. Trapasso dunque con la lama affilata dei miei pensieri (senza filtri) il velo di Maya, come farebbe Fontana con una delle sue tele, e scrivo questa lettera da ex fidanzato, ma eterno amante. Uno di quelli che di fronte all’album delle foto che aveva detto – mentendo – di aver bruciato, non può far altro che provare un misto di gioia e dolore. All’interno di Songs Of Surrender le istantanee sono quaranta, ognuna ancora purissima e nitida, come il giorno in cui sono state scattate. I colori, certo, sono a volte diversi da come te li ricordavi, ma la sostanza è la stessa.

Ma facciamo ordine. Partirei subito dal peso specifico di Songs Of Surrender: malgrado aborri con tutto me stesso le operazioni nostalgia come le raccolte (che però, ad onor del vero, hanno una certa rilevanza nella storia dei quattro dublinesi) non si può non tener conto del fatto che questo progetto contenga un sotto testo cruciale per chiunque voglia conoscere il lato intrinseco e spesso inconfessato della band, ossia le quattro anime – diversissime e al contempo complementari – che determinano la chimica della loro musica. E allora ecco che, da vecchio fidanzato, non posso non essere affezionato ad ognuna di queste Polaroid, seppur in modo diverso. Chiaramente ci sono delle preferenze: il lato di The Edge, ad esempio, raccoglie i consensi di chi, come il sottoscritto, è tendenzialmente più legato agli U2 epici della trilogia prodotta da Eno (quelli di Where the Streets Have No Name e Bad, per intenderci). In questa veste si perde indubbiamente il fascino regale rappresentato dal sound stratificato, granuloso e riccamente reverberato, ma è come se queste nuove versioni fossero in grado di accogliere una rilettura più profonda e viscerale, alle origini del pezzo.

Quello di Larry è forse il lato più debole, ma è anche quello che riserva più sorprese: infatti Who’s Gonna Ride Your Wild Horses riesce, con questa versione, a potenziare addirittura l’amatissimo Temple Bar Mix, ossia la versione più acustica del brano di Achtung Baby. È la perla nascosta che nessuno si aspetta. Un brano che merita ogni lode, da sempre e per sempre. Questa versione, più intima che mai, è un regalo di inestimabile valore per i fan. E poi c’è una versione di The City of Blinding Lights che fa accapponare la pelle. Le alte del pianoforte e le profondissime del basso, scavano un varco in cui si poggia, con emozionante consapevolezza, l’interpretazione vocale di Bono. Si entra nella selezione di Adam, un momento estremamente rock, che in questa veste unplugged ci porta alle origini della musica degli U2. Il passaggio più complicato della raccolta, ma probabilmente il più suggestivo e coraggioso per le scelte messe in atto. È incredibile come brani di Ere geologiche diverse e lontanissime una volta spogliate dei propri vestiti, risultino così simili (penso a Vertigo, che arriva prima di I Still Haven’t Found What I’m Looking For). È la vera vittoria della musica di qualità, che abbatte i muri degli anni e sublima (quasi eclissa) il senso dei trend da producer. È tra queste tracce che compaiono anche Electrical Storm e All I Want Is You, pezzi mastodontici soprattutto per i fan delle ballad. Come detto, ci sono anche titoli per palati sopraffini: come ad esempio la splendida Peace On Earth, che non può passare inosservata.

Arriviamo all’ultimo allungo, quello che ci porterà a tagliare il traguardo: mai così amaro può essere vedere la bandiera a scacchi, in questa maratona lunghissima che – arrivati a questo punto – vorremmo non finisse mai. Se si ama la più grande band di Dublino fino al midollo, probabilmente il lato di Bono è il più bello. Senz’altro il più romantico. With or Without You, Stay, Sunday Bloody Sunday, un trittico che menderebbe in estasi anche il più freddo e pre concettuale degli ascoltatori. Quest’ultima, nello specifico, è un miracolo in pubblica piazza, in grado di dimostrare al mondo che anche il brano più drum-centrico della discografia della band, vive ed ha senso di esistere, anche senza le percussioni marziali. È la grandezza di Bono, che in lungo e largo, attraverso praticamente tutte le interpretazioni di Songs Of Surrender dimostra di essere ancora puro e fedele a sè stesso. Perché certi passaggi vocali quasi superficiali, calanti, privi di ogni patinatura, finiscono per rendere questo progetto un vero successo che sconfigge lo spettro dell’auto celebrazione. Bono non vuole farle bene, vuole farle nella maniera più vera possibile. È come se si tornasse allo stadio di demo, all’origine di tutto.

Alla natura primordiale di questi capisaldi di storia della musica. S.O.S. – acronimo che è tutto un programma – dopo una versione suggestiva di Miracle Drug in cui The Edge è un valore aggiunto anche a livello vocale, e un tributo al criticato Songs of Experience con The Little Things That Give You Away, si chiude nella stessa maniera in cui spesso si sono chiusi i live della band: con 40 un pezzo che racconta esattamente gli U2 e la natura intercambiabile della band, visto live alcuni membri si scambiavano gli strumenti e, uno ad uno, scomparivano nell’ombra delle quinte, tra gli echi infiniti dell’oceano di persone che prendevano atto che tutto, anche le cose più belle, sono destinate a finire. Come Songs Of Surrender. Come questo album fotografico. Arrivato all’ultima pagina. 40/40. Ma forse, come in certe storie d’amore, c’è ancora tempo per scattare anche solo un’ultima Polaroid. In attesa di Songs of Ascent, rifacciamoci le orecchie con questa storia che dura da quarantasette lunghi anni. Senza aver paura di essere ancora innamorati, malgrado qualche ruga d’espressione.