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Si intitola “Memento Mori”, ma i Depeche Mode sono più vivi che mai

Con “Memento Mori” i Depeche Mode ci ricordano chi sono stati e chi sono tuttora.

Morte come abisso temporaneo da cui poter risalire, morte come idea o cessazione definitiva. È tendenza naturalmente umana abbandonarsi alla morte, che sia emotiva, psicologica, fisica. Nel 1993 Dave Gahan, Martin Gore e Andy Fletcher ne affrontavano una: il post-Violator e le alte, altissime aspettative di un’uscita discografica altrettanto convincente ne furono probabilmente la causa scatenante. Un giorno di marzo, infatti, usciva Songs Of Faith And Devotion, un disco oscuro, nato dalla schiacciante pressione della stampa e dei fan. Mentre Gore si lasciò andare all’alcol, Gahan abbracciò la sua dipendenza più buia, quella dell’eroina. Fu in quell’occasione che Andy decise di abbandonare il gruppo a causa di un esaurimento nervoso. Esattamente trent’anni fa i Depeche Mode sperimentarono una morte, Gahan ne affrontò una reale, ma di pochi minuti su un letto di ospedale tre anni dopo per un’overdose da eroina ed infine, nel giugno scorso, quella vera colpì Andy Fletcher, rendendo la band monca di quel collante necessario, fatto di ironia, modestia e bravura. Oggi, che la morte sia una possibilità, i Depeche Mode ce l’hanno ben chiara, come band ma anche e soprattutto come individui.

Memento Mori è il promemoria che campeggia su sfondo nero, al di sopra di due paia di ali floreali. La cover, come sempre a cura di Anton Corbijn, traduce in immagini quanto i Depeche Mode rendono in musica. Non è un semplice ritorno (sono passati sei anni da Spirit, l’ultimo disco) bensì una rinascita, una consapevolezza dei chiaroscuri della vita, un invito positivo a cogliere tutto quello che la vita offre. Un’idea che, a differenza di quanto si possa pensare, nacque ben prima che Andy Fletcher lasciasse la dimensione terrena. Il disco era infatti  già in fase embrionale durante la pandemia, periodo dal quale attingono alcuni aspetti del progetto. Fu proprio allora, nel 2020, che Richard Butler (frontman degli Psychedelic Furs) contattò Gore invitandolo a collaborare. Da quella proposta nacquero ben quattro pezzi inseriti nel disco. Memento Mori si apre con My Cosmos Is Mine, un intenso pezzo a livello uditivo e testuale. “No war/No more” implora ossessivamente Dave, rivendicando i confini ben definiti del suo cosmo. A seguire Wagging Tongue, che vanta la firma del neo duo Gore/Gahan. Le chitarre, come in gran parte del disco, iniziano a lasciare spazio al synth, tra luci dell’alba e sensazione di vuoto nel vedere “un altro angelo morire”.

Il refrain adesivo di Ghosts Again è seguito da un’inaspettata Don’t Say You Love me dove gli archi di Davide Rossi si rendono protagonisti di un’incursione cinematografica a tutti gli effetti. Merito senza dubbio della produzione di James Ford (illustre nome dietro i progetti dei Last Shadow Puppets, Arctic Monkeys, Gorillaz) e dell’altra fetta italiana in Memento Mori, Marta Salogni. Dalle morbide e solenni note di Soul With Me di Gore, ad impattanti sintetismi meccanici (Before We Drown e People Are Good) in un’altalena sonora sorprendente, tra richiami tormentosi (Always You) e tappeti di synth in cui i Depeche Mode ci ricordano chi sono e chi sono stati. Ci si addentra dalla prima all’ultima traccia in un percorso catartico, in uno scenario denso e cupo in cui è possibile scorgere la luce, tra le crepe delle consapevolezze, la voglia di riscoprire un binomio vincente, quello di Gahan/Gore, e riprendere in mano la vita, propria e della band. “La morte si può considerare come l’estinzione vitale non tanto dei singoli elementi che la compongono, quanto delle necessarie correlazioni tra organi e funzioni”, scrive La Treccani. Certo, dalla morte di un membro non ci si riprenderà mai ma “Riparare è meglio di guarire/Qualche volta” (canta Dave Gahan in Carolyne’s Monkey). E i Depeche Mode oggi sono più vivi che mai.