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Con “Austin” Post Malone è diventato ciò che è sempre stato

Post Malone può fare il cazzo che gli pare. Perché è come quell’amico del liceo che vince a tutti gli sport, anche quelli di cui non conosce le regole. Le scopre giocando

Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Anche Post Malone. Che si sarebbe arrivati ad un disco come Austin era chiaro già dagli esordi, perché nella trap del Posty di Stoney, perpetrata in Beerbongs & Bentleys, c’è sempre stata un’anima pop-rock con punte di folk. Il timbro vocale, l’approccio alla melodia, la tecnica canora (con quel vibrato tanto iconico) ma soprattutto la penna, hanno sempre lasciato presagire che, presto o tardi, la rockstar nascosta sotto i tattoo e i paradenti luccicanti da trapper, sarebbe emersa. Un disco come Hollywood’s Bleeding in tal senso è stato un picco, perché le chitarre distorte o ad esempio il featuring con Ozzy Osbourne hanno tracciato una linea a dir poco intrigate e forse irripetibile.

Poi è arrivato Twelve Carat Toothache, disco molto sottovalutato ma dall’anima sincera ed autoriale. Lo step successivo era prevedibile che sarebbe stato quello di completare la transizione e smetterla di flirtare col pop, ma di portarlo finalmente al letto. E se questi anni di musica diversa ma pur sempre coerente – poiché allineata alla personalità eclettica di Malone – sembravano solo le premesse di un never ending love, beh ora, con Austin, possiamo appurarlo. Ovviamente verrò smentito dal prossimo lavoro, già lo so, ma ad oggi mi sembra complicato immaginare un disco più pop di questo, perché ci sono praticamente tutte le sfaccettature di questo genere: dai synth anni Ottanta di Novacandy fino alle vibes più acustiche di Socialite. C’è ovviamente anche un pizzico di rock più rotondo, come quello del bel singolo Overdrive che aveva anticipato l’uscita della quinta fatica in studio del ragazzaccio di Syracuse.

C’è anche qualcosa di intrigante per i fan del grunge alla Nirvana: questo qualcosa si chiama Don’t Understand e porta in scena alcuni passaggi armonici e un sound che evidentemente prendono a piene mani dal Cobain più folk (sì, esatto, quello dell’MTV Unplugged). Tante suggestioni mainstream, dunque, ma attenti a non fraintendere, perché c’è anche qualche guizzo di sperimentazione, come ad esempio le produzioni ambiziose di Texas Tea e Speedomete (quest’ultima che nel groove può addirittura vagamente ricordare This Must Be The Place – capolavoro prodotto da Eno per i Talking Heads). Spoiler: ovviamente niente a che vedere con Byrne e soci, ma l’intento di giocare coi bpm e con la linea di basso c’era. C’è anche l’interessante ponte che rende Novacandy e Mourning una specie di unica lunga canzone come andava di moda fare ai tempi del vinile e dei magnificenti concept album del passato.

Se invece siete in cerca della nuova Stay, probabilmente una struggente ed elegante ballad di altri tempi come Hold My Breath vi lascerà piacevolmente sorpresi. In estrema sintesi siamo di fronte ad un disco più che sufficiente che sembra aver risvegliato la voglia di Posty di scrivere come le grandi popstar del passato. Di norma tendo a non amare tutto ciò che è a metà tra due o più cose ma questo disco, pur essendo così dalla prima all’ultima nota per cinquantuno minuti e quarantasette secondi, non fa altro che confermare al mondo intero che Post Malone può fare esattamente il cazzo che gli pare. Perché è come quell’amico del liceo che vince a tutti gli sport, anche quelli di cui non conosce le regole. Le scopre giocando. Solo che Posty, le regole, le conosce da sempre.