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“Ragazzi madre: L’Iliade” è il ritratto poco umile di Achille Lauro

L’ora e un quarto di “Ragazzi madre – L’Iliade” lascia l’immagine di un Achille Lauro stremato da un sovraccarico di personalità costruite ad hoc

Lo avevamo lasciato tra fragole, panna e champagne sotto una luna frivola e spensierata. Lo ritroviamo oggi protagonista de Ragazzi madre – L’Iliade, il docufilm disponibile su Prime Video che svela l’ascesa e il riscatto di un ragazzo romano, cresciuto in periferia, diventato celebre artista di successo. Lauro De Marinis, in arte Achille Lauro, racconta «non una storia, ma un poema». Nelle vesti di un eroe che ha ben poco di omerico, affronta e supera le battaglie della strada, al limite della delinquenza, dirige un ambiziosissimo e pretenzioso documentario su se stesso, sui primi dieci anni di carriera, da adolescente ribelle tra artistoidi e figli di nessuno, fino ad ergersi ad icona di stile, di esempio per i meno fortunati, per i ragazzi come lui. Svestendomi di qualunque pregiudizio, preconcetto e qualsiasi cosa “pre” ingiustificata, provo a godermi la visione del poema epico-musicale dei giorni nostri. La solennità dell’intro, il bianco e nero ed il montaggio di scene forti di periferia, precedute da citazioni epiche non fa altro che creare l’aspettativa di un kolossal.

Lauro affida la narrazione alle immagini e alla voce di chi lo ha conosciuto sin da ragazzino. Ci sono i produttori, gli amici, i fondatori del collettivo, il fratello. Tutti tranne i genitori (ad eccezione di un breve frame con la madre) da cui si è dovuto misteriosamente separare e l’ex manager, un fantasma che aleggia durante tutta la durata del documentario. Chi parla, racconta di quanto fosse reale e visibile agli occhi di tutti il potenziale creativo di quel ragazzo che girava con una scatola a mo’ di borsa piena di chiavi, cellulari senza batteria (rigorosamente rubati) e tanta ambizione. Un perfetto mix tra zarro e punk, nell’attitudine e nello stile. E sarà proprio questa bizzarra commistione a produrre testi audaci su musiche ancora acerbe. «Ero un fotografo documentarista di ciò che vivevo», spiegherà Lauro, con quell’umiltà non pervenuta che lo contraddistingue. Achille diventa ben presto l’eroe epico dell’urban, si lancia in un’esperienza tanto lontana quanto desiderata, quella di Sanremo. Rolls Royce, la provocazione e le presunte insinuazioni sulla droga fanno di Lauro uno degli artisti più citati, criticati ed apprezzati della sessantanovesima edizione del Festival. Da lì un’escalation di successi, di titoloni sui giornali, di autocelebrazione.

Dal secondo Sanremo, fino al terzo come super ospite, assistiamo alla costruzione dei personaggi che porta sul palco, alla sua ambizione che lo porta a spostare sempre più in alto l’asticella, finendo per accostare se stesso a nomi irraggiungibili, con la stessa credibilità con cui usa ergersi ad icona, superando i confini musicali, sconfinando nel sociale, strizzando maliziosamente l’occhio alla comunità LGBTQ+ inneggiando alla libertà di essere ciò che si vuole. L’ora e un quarto di Iliade lascia l’immagine di un eroe stremato da un sovraccarico di personalità costruite ad hoc. Achille, reduce dalla battaglia più difficile, quella con se stesso, ne esce sconfitto, mentre Lauro, seppellito dalle identità plurime accumulate negli anni, non sappiamo più chi sia. Se solo mettesse da parte l’autocelebrazione compulsiva e si spogliasse di quel pesante mantello di finzione, ne uscirebbe fuori un gran bravo ragazzo.