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Gianni Bismark, andata e ritorno

Gianni Bismark si racconta: Franco Califano, Roma, il cantautorato, il rap e “Andata e ritorno”, il suo quarto album in quattro anni. «Una pausa? Giusto ieri ho scritto un nuovo pezzo»

La capacità di Gianni Bismark di mettere al centro della propria musica degli spaccati di vita vissuta, di quella malinconia urbana in cui tanti ascoltatori della sua generazione e non solo tendono a riconoscersi, è sempre stata la sua caratteristica più distintiva. “Le solite storie, le piazze, le strade/Sta tutta qua la mia libertà”, canta nel ritornello di La mia città. Si tratta di una frase che riassume perfettamente la sua dialettica, che anche in questo nuovo disco – il quarto in quattro anni – rimane coerente col suo percorso, anche se è nettamente il suo progetto più sperimentale. Nonostante nel suo percorso ci siano stati spesso episodi che si discostavano dal crudo rap che tendenzialmente gli viene associato, infatti, mai come in questo disco Gianni ha dato spazio alla propria vena cantautoriale, che sembra riprendere rispettosamente e inconsciamente la dialettica di Franco Califano ma la inserisce con coerenza nel suo stile.

Il disco si chiama Andata e ritorno ma sei prima uscito solamente con la seconda parte (ritorno ndr.).
L’andata ha una vena più cantautoriale, mentre il ritorno è molto più rap. Volevamo uscire prima con una parte e poi con il disco completo per dare importanza a ognuna delle due anime che porto nel disco. Pensavamo però che se fossimo usciti prima con la parte più cantautoriale, l’uscita successiva della parte rap sarebbe stata vista come un passo indietro, un sintomo di una paura di aver sbagliato che io assolutamente non ho. In entrambe le versioni, questo sono io.

Come convivono queste tue due anime?
Nonostante il rap sia il mio linguaggio primario, è già dai tempi di Re senza corona che questo lato più cantautoriale esiste nella mia musica. Queste mie due anime convivono benissimo. Un sacco di strofe di questo disco le ho scritte su una base rap per poi trasformarle completamente, e viceversa. Per esempio, Esagerato, che indubbiamente è un banger, l’ho scritto su un pianoforte. A scrivere comunque parto sempre da una base, quindi poi c’è spazio per sperimentare.

Te ne andresti mai da Roma?
Non credo, a volte sento l’esigenza di andarmene per qualche giorno ma poi torno sempre. Ho sempre vissuto a Roma tutta la vita seppure spostandomi spesso, ma la verità è che questa città mi dà tanto, sia a livello pratico che per la mia scrittura. E poi sarò sincero: ho un po’ paura ad andarmene.

Quanto è stato importante Franco Califano nel tuo percorso?
Quando mi chiedono a chi mi sono ispirato, dico sempre a nessuno perché ho sempre cercato di mettere la mia musica al centro di tutto. Col tempo però mi sto rendendo conto che non volendo la mia ispirazione primaria è stata proprio Califano. Ha dato tanto sia a me che ad altri artisti di Roma. Per noi è l’artista di punta e crescere con la sua musica mi ha lasciato qualcosa nel sangue che non può non emergere anche subconsciamente quando scrivo.

Quanti spunti continui a ricevere dagli spaccati di quotidianità che metti al centro della tua musica?
A me piace molto raccontare nelle canzoni. Raccolgo informazioni ogni giorno sulla base di quello mi accade e le porto nella scrittura. Proprio per questo scrivo tantissimo, anche per allenamento. Perché io possa scrivere, però, mi devono succedere cose. Per esempio, la pandemia è stato un periodo in cui non riuscivo a scrivere perché non riuscivo a trovare niente di cui parlare.

Hai detto che scrivi tanto, come decidi di far uscire o meno un pezzo?
Spesso dipende dal periodo in cui l’ho scritto. Ci sono cose che magari scrivo di getto nel momento in cui accadono ma poi non voglio rivivere, quindi anche se il pezzo mi piace poi non lo metto. Le mie cartelle però sono piene.

Nella prima parte del disco ci sono molte collaborazioni. Com’è andata?
È stato bellissimo mettersi in gioco con mondi diversi dal mio. Con Noemi ci siamo visti a Milano per registrare un altro pezzo che poi però non ci era piaciuto, quindi poi abbiamo fatto questo, più malinconico e intenso. Con Tiromancino invece ci conosciamo da tanto e abbiamo un bel rapporto, quindi il pezzo è nato da solo. Poi in quel pezzo ci sono anche le chitarre di Alex Britti che mi ha fatto conoscere a casa sua tempo fa, e ho voluto metterle ampliare ulteriormente il raggio della mia musica. Con Bresh invece siamo amici da un sacco. Avevamo già collaborato ma in questo caso volevamo fare una cosa più cantata e il pezzo Parliamo delle stesse cose è perfetto per lui.

Tu, come la LoveGang e come gran parte della scena romana di quella generazione, avete cominciato il vostro percorso praticamente insieme.
Sì, ci siamo conosciuti a Trastevere quando loro avevamo fatto quattro pezzi e io tre. Nessuno si aspettava tutto questo. Lo facevamo perché ci piaceva, non vedevamo soldi né traguardi, volevamo solo spaccare con la musica, certo, ma solamente tra di noi. E poi abbiamo spaccato davvero (ride ndr.).

Com’è cambiato il vostro modo di collaborare?
Adesso secondo me il nostro approccio è molto più professionale perché è diventato un lavoro. Non possiamo più fare musica solo per noi stessi. Ovviamente, c’è un po’ la paura di perdere un po’ di spontaneità in questo. Come fai a non averne? Penso però che sia assolutamente giusta e che ci spinga a fare le cose con sempre più cura.

Come lo vedi il 2024 che sta per arrivare?
Faremo un tour estivo, un tour invernale, e voglio portarmi in giro anche una band per provare un tipo di show diversi rispetto a quelli che ho portato.

Ti prenderai una pausa dopo il tour?
Tendenzialmente dico a tutti che mi prenderò una pausa perché sento il bisogno di staccare, ma giusto ieri sera ho scritto un nuovo pezzo, quindi chissà.