dark mode light mode Search Menu
Search

Jesus and Mary Chain, molto più di un nostalgico trip

Con “Glasgow Eyes” i Jesus and Mary Chain decidono di tornare a casa e ripartire da lì, dove tutto è iniziato, in una rappresentazione della stessa band delle origini

«Se ci fosse un posto nel mercato pop per i Jesus and Mary Chain, i Jesus and Mary Chain non esisterebbero», affermava nel pieno degli anni Ottanta Jim, il minore dei fratelli Reid, in un ossimoro di spavalderia e timidezza che ha da sempre contraddistinto i due di East Kilkbride. Oggi, a quarant’anni di carriera ed in cuffia l’ultimo lavoro discografico della band, Glasgow Eyes, non si può che essere d’accordo con lui. I Jesus and Mary Chain, disadattati in una decade di pop kitsch ed estroso, si sono fin da subito inseriti in un personalissimo segmento nel mercato musicale e oggi, dopo sette anni dall’ultimo disco – Damage and Joy – tornano sulle scene, ricollocandosi in quella stessa nicchia shoegaze di cui continuano legittimamente ad essere i portabandiera, rivendicandone a suon di chitarre la paternità. Glasgow Eyes, segna un nuovo capitolo della band, appianati gli storici dissapori fraterni, complici le distanze oceaniche che li dividono nella vita quotidiana.

Per il nuovo disco, i Jesus and Mary Chain decidono di tornare a casa e ripartire da lì, dove tutto è iniziato. Didici sono le nuove tracce (registrate nello studio dei Mogwai, Castle of Doom), che testimoniano la maturità di una band capace di pescare e riproporre gli elementi migliori del proprio catalogo, condensandoli in un’inaspettata virata elettronica, citando i Kraftwerk e i Suicide. Glasgow Eyes assume le sembianze di un’autobiografia da ascoltare in cuffia. Oltre ai nomi di references disseminati in quasi un’ora di disco (gli Eagles e i Beatles in una sola traccia dall’omonimo titolo Hey Lou Reid in un gioco di parole che tributa il leader dei Velvet Underground), i testi guardano nostalgicamente al passato ripercorrendo alcune tappe significative della band: “Best notify the other brother, there’s no place to go” di Jamcod è un chiaro riferimento all’episodio alla Los Angeles House of Blues del 1998, quando William abbandonò il palco dopo quindici minuti di esibizione e la band si sciolse ufficialmente.

In Second of June il passaggio “All those things are dead” e “Brother can you hear me calling you?” parla del riavvicinamento fraterno, mentre in Pure Poor non manca una sincera autoanalisi di Jim con riferimento al suo passato “I fill myself with chemicals to hide the dark shit I don’t show”. Glasgow Eyes non è una reinterpretazione di Psychocandy, né tantomeno una rielaborazione sonora di Darklands, non siede sugli allori come Damage and Joy. Glasgow Eyes vede chitarre su una coraggiosa texture elettronica (Discotheque) ora allineandosi ad un potenziale cinematografico (Mediterranean X Film e Silver Strings) ora sintonizzandosi sul canale tradizionale dei Jesus and Mary Chain, (Girl71Second of June e The Eagles and the Beatles), senza tralasciare esplorazioni dark (Pure Poor e Chemical Animal). Glasgow Eyes è molto più di un trip nostalgico. È la rappresentazione degli stessi Jesus and Mary Chain delle origini. Quarant’anni dopo.