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“Stranger Things”: la vostra serie tv di successo in sei passi

Da grande fan del cinema noir anni ottanta ho sempre cercato di capire cosa desse una marcia in più a questa teen series rispetto ai mostri sacri del passato. Da E.T. a IT, da The Thing a The Shining (il film più iconico del novecento) passando per i vari Firestarter, i Goonies, Twin Peaks e chi più ne ha più ne metta. Analizzando trama, interpretazione e sceneggiatura non regge il confronto con nessuno dei precedenti e allora: perché? Per rispondere al mio dubbio è stato necessario andare a pescare una vecchia memoria documentaristica. In uno dei più noti speciali sulla Pixar dove si tentava di capire quale fosse la formula magica per avere una storia di successo ed è lì che ho avuto l’illuminazione. Secondo gli studiosi del cinema ci sono degli ingredienti in grado di far funzionare una storia. Vado a memoria e ne elenco alcune, provando sparlarvi di Stranger Things.

1. L’EMITTENTE

La verità è che siamo figli di un’epoca dove ogni dichiarazione risulta un oltraggio ed io stesso vacillo nello scrivere un pezzo come questo in cui tiro in ballo opere di Kubrick (il più grande regista della storia), David Lynch e la penna di Stephen King. Il fatto è che il cinema è anzitutto coinvolgimento e oggi, senza alcun dubbio, avere alle spalle il colosso dello streaming cinematografico, ti dà l’impressione di poter arrivare a tutti anche senza apparenti meriti.

2. IL NOME

Ciò che è stato detto sopra, per quanto univocamente assodato, è solo in parte vero perché sicuramente ci sono elementi che rendono questo prodotto, un masterpiece di genere. Partiamo dall’inizio, la prima cosa che con cui entriamo in contatto: il nome. Stranger Things è un naming talmente anacronistico da riuscire già in prima battuta a collocarci in un qualche loop mentale. Suona come Incontri ravvicinati del terzo tipo (un must have del copywriting), con il vantaggio di poter essere divulgato in un momento storico in cui non è neanche necessario andare a tradurlo in un improbabile “cose sconosciute/straniere/estranee”. Piccola nota a piè di pagina, per uno che non riesce proprio, anche provandoci, a non scrivere con un pizzico di deformazione professionale, è il logo della serie. Guardarlo per un designer è puro tripudio. Non esiste tipografia più anni ottanta e nel contempo stupenda di quella di Stranger Things. Il tentativo che un graphic designer cerca di fare, prima mentalmente, poi fattivamente, quando si appresta a disegnare un prodotto che citi un decennio del passato, è quello di buttare via ogni forma di modernità e rispetto delle regole per poi lavorare con la mente immersa in un mondo in cui gusti, tendenze e linee guida erano completamente diversi. La grandezza di Stranger Things è nell’essere riuscita a fare qualcosa di bellissimo ai nostri occhi di millennials (o poco meno) senza perdere il gusto di un decennio che di fatto tutti gli altri riescono solo a scimmiottare e stigmatizzare. ST non è mai kitsch, e meno ridondante esteticamente degli autentici anni ottanta.

3. LA SIGLA

Dopo queste considerazioni siamo pronti per affrontare la sigla. Frame simil pellicola, rosso neon e animazione delle lettere fini a comporre il titolo. Ancora una volta ci sono tutti i cliché ma nulla sfocia mai nel becero. Le dissolvenze (espediente narrativo peraltro completamente sconfitto dalla filmografia post anni duemila) si lascia apprezzare nei titoli di testa, con le scritte – rigorosamente in bianco su nero – che nello spegnersi si bagnano di rosso. Capolavoro. Novanta minuti di applausi ed ecco a voi la palette cromatica dell’horror. Ancora una volta, però, non c’è nulla di banale. Zoom tra le lettere del nome del capitolo della puntata, in pieno stile tarantiniano e anche il tassello del rituale che introduce lo spettatore allo show è incasellato. Chi studia o è appassionato di queste cose annuirà.

4. LA COLONNA SONORA

Ogni serie tv trans generazione ha avuto il suo maestro illuminato. Un italiano, Angelo Badalamenti, lo è stato per Twin Peaks, il tedesco Ramin Djawadi (delfino di un certo Hans Zimmer) lo ha fatto per Il trono di spade e Dave Porter per Breaking Bad. Se usciamo dalle serie tv, uno su tutti Mike Oldfield per l’esorcista (anche se vi invito a googlare per scoprire la storia dietro la prima sigla, mai arrivata al grandissimo pubblicato). Kyle Dixon e Michael Stein hanno fatto quel che era giusto fare, solo molto meglio. Hanno composto composto un classicone anni ottanta profondo e ruvido ma estremamente noir, nel contempo pop. Ricorda Goblin (Profondo rosso), Moroder e MGMT. Synth, modulari e baseline in grado di dare il colpo di grazia anche ai critici più restii.

5. I PERSONAGGI

Il punto focale di questa analisi. Pensate ad una serie tv, troverete di sicuro un protagonista assoluto e dei deuteragonisti. Ma quello che rendeva i film Pixar diversi da quelli di Dreamworks (per esempio) era l’impressionante valore dei personaggi, che erano protagonisti, senza sovrastare gli altri. In Stranger Things c’è forse un personaggio leggermente più forte degli altri (Eleven), ma sarebbe scorretto dire che è la protagonista della serie. Tra i protagonisti, che forse sono sei, forse otto, forse addirittura dieci, c’è da annotare Hopper, il personaggio della evergreen Winona Rider, tutti i teenager che gravitano intorno alla storia, i familiari dei ragazzi e, in questa terza stagione, anche un altro paio di new entry. Questa caratteristica è più unica che rara nello show business (il caso più riconoscibile è quello di Game of Thrones dove addirittura le gerarchie cambiano e la dialettica buoni-cattivi è quantomai aperta a cambi ruolo). Quel che forse manca a questa serie è un cattivo altrettanto iconico. Seguendo parzialmente il filone di Twin Peaks, gli autori hanno fatto leva (e conto) sull’immaginazione degli spettatori che alla fine associano l’antagonista più ad un concetto che ad un volto.

6. L’IMMAGINARIO

Sostenuto da una fotografia eccezionale, specie in questa terza stagione, in cui tocca livelli impressionanti sia per simmetrie che per transizioni visive e sonore, l’immaginario di Stranger Things è vincente. Tutti sognano attorno al decennio che fu, ai mitici anni del flipper, del jukebox che suonava spaziando tra il rock dei Clash e la disco dei The Trammp. A chi dice che c’è ben poca serietà in mezzo a tutta questa marmaglia di mocciosi, beh, ci sarebbe da fare un elenco di tutte le citazioni al passato del cinema d’autore; dal poster di The Thing sempre in bella vista in tutte e tre le stagioni, alla scena ripresa da Shining in cui il cattivo mette la testa dentro la fessura della porta che si è creato per aprire la maniglia, all’impermeabile giallo di IT, alle biciclette di E.T., alle ventose per studiare Eleven della prima stagione che citano Firestarter, alle immagini di Ritorno al futuro nel cinema di Hawkins, alla scena del cartello della città che ricorda Twin Peaks. Potremmo continuare per ore, ci sono dei video su YouTube a riguardo e l’impressione è qualcuno comunque sia sfuggito anche ai feticisti dello sci-fi. C’è anche tanta società americana, tanto capitalismo, tanto nazionalismo, la lotta ai russi, la tematica dell’omosessualità e dell’emancipazione femminile (non spoileriamo come e quando), i fast food con vistoso product placement – su tutti Burger King e Coca Cola – e tante figure retoriche interessanti. Per esempio, la più esplicita è quella che vede partecipi due personaggi della storia, uno americano, l’altro russo: sono in una sorta di luna park durante la festa del 4 luglio (non una festa qualunque, ma la festa degli americani) quando lo statunitense dice all’altro che i giochi delle bancarelle sono fatti apposta per farti credere che puoi vincere, ma alla fine il capitalismo a stelle e strisce vince sempre. E invece il russo vince quasi a dire che sì, il sogno americano esiste ancora e che solo gli stessi americani, attraverso l’espediente del dubbio, posso farlo affievolire. Ad ogni modo in questi giorni tra Chernobyl, Stranger Things e i cinquant’anni dall’allunaggio, l’impressione è che neanche Trump e Putin riescano a far seppellire l’ascia di guerra ai registi americani.

CONCLUSIONI

Ma non è neanche (solo) questo che fa sì che ogni due stories Instagram degli ultimi giorni ce ne sia statisticamente una con lo schermo della tv, del pc o dell’iPad che trasmette Stranger Things. Il motivo per cui una emittente in parte competitor come Italia Uno dedichi la sua programmazione all’immaginario intorno al quale la serie ha costruito il proprio, in concomitanza con il rilascio delle otto puntate più divorate di sempre, è che di base questa avventura sovrannaturale sta simpatica un po’ a tutti. Come accede da sempre nel cinema, vuole mettere in risalto quelli che di solito sono fuori dalle logiche (in questo caso i teenager che alla fine insegnano ai grandi come si combatte il male). Per cui il vero, definitivo, punto a favore di questa fantastica serie – vorrei far notare che manca il punto “storia” che in presenza degli altri può anche non essere da voto dieci in pagella, come nel caso di Stranger Things – è proprio il suo pubblico. Stranger Things è per tutti, esistono diversi livelli di lettura e racconta un decennio che in molti rivivranno attraverso le puntate e che molti altri proveranno, senza troppa fatica, ad immaginare.