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“J’Accuse”, forse c’è speranza

È così difficile scindere l’uomo dall’artista? Il genio immortale dall’essere umano imperfetto? Quando si guarda un’opera del livello di J’Accuse di Roman Polanski, è necessario porsi in primis questa domanda e, con un forte senso di autocritica, cercare di comprendere quanto si è in grado di essere giudici imparziali (e qualora non ci fosse possibile esserlo, mettersi da parte). Perché Roman Polanski è famoso principalmente per due motivi: da un lato è l’affermato regista di opere meravigliose quali Cul De Sac, Chinatown, Il pianista, Venere in pelliccia o un più recente Carnage; dall’altro per un motivo molto meno lusinghiero, ovvero le numerose accuse di stupro ai danni di ragazze al più minorenni. Ora, se è vero che l’uomo comune non deve mai sostituirsi alla giustizia, è vero anche che nessuno è esente dall’avere una propria opinione. È proprio questo il motivo che sta spingendo in questi giorni a parlare, in bene e in male, del nuovo film di Polanski, J’Accuse.

Il film, presentato durante la 76esima Mostra Del Cinema di Venezia, è incappato in diverse polemiche, non tanto date dal valore in sé della pellicola, quanto piuttosto del suo autore: si leggono online titoli come Roman Polanski, child rapist, given hero’s welcome in Venice (tradotto letteralmente in Roman Polanski, stupratore di bambine, accolto a venezia con un benvenuto da eroe); una sorta di serpente che si morde la coda da solo, una situazione senza capo né coda, giusto o sbagliato: chiunque acclami il film sembra quasi venire bollato come complice dei crimini del suo regista, mentre chi giudica il regista e non l’opera in sé è incapace di imparzialità. Quello che mi domando è: il fatto che Caravaggio abbia rinomatamente ucciso un uomo, rende le sue opere meno belle? Dovremo giudicare lui in quanto persona, invece dei suoi quadri? Oppure dovremmo essere capaci di scindere il nostro giudizio di arte e di artista? Detto ciò, J’Accuse è un film che merita di essere visto, senza riserve e sospendendo i giudizi morali.

Il film, che analizza il rinomato affare Dreyfus, si colloca in un genere cinematografico storico, attento minuziosamente al dettaglio e non interessato ad infiorettare i fatti per aumentare i colpi di scena. Realizzare un film storico è spesso molto più complicato di quanto non si possa pensare. Da un lato va mantenuta una certa pertinenza ai fatti realmente accaduti ai quali ci si ispira, dall’altro si deve essere in grado di raccontarli non a discapito dell’intrattenimento. Va da sé che spesso intraprendere un’impresa del genere può rivelarsi un’arma a doppio taglio: sulle sale vengono proiettati film estremamente coinvolgenti, ma che sono solo in parte trasposizioni di eventi reali, o film estremamente fedeli ai fatti ma poco avvincenti. J’Accuse non fa parte di nessuna di queste categorie, sorprendentemente.

Polanski non edulcora i fatti, non mostra nulla che non sia realmente accaduto; non cerca il colpo di scena hollywoodiano; la sua arma principale, il suo coupe de maître sono le parole: forti, dure, pesanti come macigni e sempre a segno. Parole pronunciate da interpreti che durante i centoventisei minuti di pellicola non si limitano ad recitare, ma addirittura diventano il personaggio che stanno interpretando, spingendoci a domandarci se davvero qualcun altro avrebbe mai potuto essere al loro posto; un po’ come la differenza tra un abito acquistato ed uno fatto su misura; ecco, Picquart è un ruolo cucito addosso a Dujardin, tanto quanto Dreyfus lo è a Garrel. E alla fine il film ci lascia un’amara consapevolezza: la xenofobia, l’antisemitismo, lo sfoggio di potere fine a sé stesso, l’avarizia, la corruzione non sono figli di questo secolo, ma parte intrinseca dell’animo umano. Ma finché ci saranno uomini che avranno il coraggio di dire: «J’accuse!» e puntare il dito, forse c’è speranza che queste malattie dell’animo non siano incurabili e che non affliggano tutti.