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La straordinaria normalità di “Minari”, senza happy ending

Minari non è quello che state pensando, ovvero il solito racconto della traumatica esperienza di una famiglia immigrata che cerca di farsi strada in un luogo ostile, come sembrerebbero farci intendere le sue premesse: il trasferimento dei quattro componenti della famiglia coreana Yi nell’hillbilly (zotico e rurale) Arkansas, presso cinquanta ettari di terra incolta che circondano una piccola casa su ruote, per inseguire il sogno americano del giovane patriarca Jacob. Minari è piuttosto una saga familiare, ispirata alla biografia del suo giovane regista – l’americano di origine coreana Lee Isaac Chung – come a quella di molti altri figli di emigrati come lui, ricordando che, negli anni Ottanta (periodo in cui è ambientata la pellicola), erano oltre 30 mila i coreani che ogni anno si riversavano negli States di Ronald Reagan. È proprio a quella mole enorme di connazionali che Jacob vuole vendere i prodotti tipici coreani che ha deciso di coltivare in quella terra acquistata dando fondo ad ogni risparmio, apparentemente priva di valore, ma che per lui è «il giardino dell’Eden». Molto meno convinta della bontà della scelta di Jacob è sua moglie Monica, scontenta della loro casa in mezzo al nulla e troppo lontana dall’ospedale.

Quest’ultimo aspetto la fa stare in pensiero per le necessità dei loro due bambini, la figlia maggiore Anne, ma soprattutto del figlio più piccolo David, che ha una patologia cardiaca che gli impedisce di affaticarsi troppo e che per il piccolo bimbo significa perlopiù non poter correre. L’arrivo in America – per aiutare la figlia – della madre di Monica Soon-ja, interpretata da una magistrale Yoon Yeo-jeong – prima attrice coreana a portare a casa la statuetta di Migliore attrice non protagonista – risulta centrale nella trasformazione in una casa vera e propria di quella che era pocopiù di una catapecchia. Soon-ja sconvolge il ritmo della narrazione al pari di quanto fa con la quotidianità della famiglia. Oltre ai suoi boxer da uomo, la sua dipendenza da bibite gassate, l’eloquio volgare e la passione per il gioco d’azzardo la nonna porterà con sè anche i semi di minari, la pianta acquatica tanto usata nella cucina coreana che dà il titolo alla pellicola. Modellata sulla nonna del regista, Soon-ja è molto lontana dalla figura stereotipata a cui siamo abituati: se ne accorge subito il piccolo David, che vorrebbe soltanto una nonna che gli faccia i biscotti come tutte le altre nonne americane. Il film scorre e trascorre naturalmente, senza alcuna forzatura, narrando gli alti e bassi del neo agricoltore Jacob, i litigi e le riappacificazioni con la moglie Monica, ma soprattutto la tenera evoluzione della relazione tra David e la sua strana nonna, che adora follemente suo nipote e non lo sgrida nemmeno quando ne avrebbe tutto il diritto.

Minari è la dimostrazione di come si possa raccontare il dramma senza toni clamorosi e senza cadere nel melodramma nemmeno nel finale: una stilla di fiducia verso il futuro ma che non sfiora nemmeno il classico happy ending. Minari si alimenta e si sostiene dell’autenticità propria delle piccole situazioni quotidiane: le battute piccate e capricciose di David verso la nonna, le partite a go-stop (gioco di carte popolare in Corea), la commozione incontenibile di Monica quando la madre le porta il gochujang (la pasta di peperoncino piccante) e le acciughe disidrate. In questa straordinaria normalità Minari appare diverso dal suo predecessore coreano (quello sì al 100%) Parasite di Bong Joon-Ho, volutamente satirico ed eccentrico fino all’eccesso. Non è però diversa la grandezza dei due lavori, eppure così diversi, che sembra certificare tutta la salute e la vivacità di cui gode il cinema Made in Korea, la cui ecletticità ed imprevedibilità della propria produzione è, in questo momento, la sua maggiore grandezza.