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“Il Divin Codino” non è un biopic pensato per i feticisti del calcio

“Ah, da quando Baggio non gioca più…non è più domenica”, cantava, ormai 16 anni fa, un nostalgico Cremonini. Tutta quella dannata nostalgia torna improvvisamente a galla in questi giorni riascoltando l’inconfondibile voce di Bruno Pizzul seguire con composta euforia le imprese Azzurre nell’assolato e rovente mondiale di USA ’94 e commentare le gesta calcistiche di Roberto Baggio, probabilmente il più talentuoso calciatore italiano di sempre, interpretato da Andrea Arcangeli nella pellicola Il Divin Codino diretta da Letizia Lamartire e distribuita da Netflix. «L’importante non è l’obiettivo bensì il percorso», sostiene Roby Baggio in una delle ultime scene del film, dopo aver assorbito l’atroce delusione per non esser stato incluso da Giovanni Trapattoni in quello che sarebbe stato il suo ultimo mondiale (2002), diviso tra Corea ed il “suo” Giappone. In un flashback si torna all’estate 1970, in tv va in onda la finale dei Mondiali di Messico ’70, partita che l’Italia perderà 4 a 1 contro i maestri verdeoro. Baggio ha tre anni e già sogna di fare il calciatore. «Quella sera mi hai detto: papà te lo vinco io il mondiale contro il Brasile», ripete costantemente il padre, Florindo, un uomo burbero ed austero che però conosce le fragilità del suo piccolo Roby meglio di chiunque altro, nei suoi momenti più difficili, sperando di instillargli così la voglia di andare avanti.

Ed è proprio sulle sofferenze del Divin Codino, più che sulle tante gioie di una luminosa carriera, che la pellicola si sofferma. Se la conquista del pallone d’oro nel 1993 passa quasi in cavalleria ampio spazio è riservato invece alle sue ginocchia fragili ed alle difficoltà di ambientamento incontrate non appena sbarcato a Firenze con l’ingombrante etichetta di promessa dell’Italia calcistica, lontano dai suoi affetti, su tutti l’inseparabile Andreina (Valentina Bellè), fidanzata e poi moglie del campione. La forza, Roberto, in quei giorni duri, la troverà nella fede, quella buddhista, alla quale venne introdotto quasi casualmente dal titolare di un negozio di dischi. Poi un lunghissimo salto temporale fino a quella maledetta finale di Pasadena contro il Brasile e quell’impossibilità di soddisfare la promessa fatta da bambino al padre. Proprio lui, la quintessenza dell’arte applicata al gioco del calcio, spara sopra la traversa della porta difesa da Taffarel il rigore decisivo: «Un errore che non avevo mai fatto in tutta la mia carriera», ripeterà dentro di sé fino allo stremo. Poi ancora un lungo salto fino al Brescia di Mazzone che lo acquista, da disoccupato, quando nessuno più crede in lui: «Mi accusano di non fare spogliatoio, la realtà è che metto in ombra gli allenatori».

Al Brescia rinasce, nulla sembra potergli togliere il suo ultimo mondiale ma poi il Karma si mette di traverso ed ecco un nuovo crack al ginocchio solo quattro mesi prima della rassegna iridata. Tutto finito? Macchè, Trapattoni gli ha fatto una promessa («Se stai bene ti convoco») ed ecco che allora i sei mesi di riabilitazione diventano tre, grazie a sudore, applicazione e lacrime, quanto basta per esserci. Ma la vita non va sempre come la si disegnerebbe ed eccoci tornati all’inizio. Il mondiale sognato è svanito, ma non l’amore dei suoi affetti benchè meno quello della gente, che di Roby ha sempre saputo apprezzare non i trofei sollevati ma la genuinità dell’uomo che si nascondeva dietro il mito del campione, come ci mostra efficacemente l’ultima struggente scena che vede quello che è il nostro Maradona essere sommerso dall’affetto dalla gente comune sulle note di Diodato. Il Divin Codino non è un biopic pensato per i feticisti della storia del gioco più bello del mondo quanto piuttosto la storia (forse un po’ troppo triste) di un uomo, prima che un calciatore, che non ha avuto paura – come cantava De Gregori – di sbagliare un calcio di rigore.