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“The Mauritanian”: Jodie Foster rimedia agli errori degli Stati Uniti

Immaginate di trovarvi ad una cena, circondati da tutti i vostri affetti più cari, poi dei poliziotti si avvicinano e chiedono di voi, dicono che dovete seguirli, devono solo farvi qualche domanda in commissariato. Siete sorpresi, forse anche spaventati, ma mantenete la calma, soprattutto per non agitare gli invitati, su tutti vostra madre, che come tutti le madri è molto apprensiva, ma solo perché vi ama più della sua stessa vita. Le date un bacio sulla fronte e le dite di non preoccuparsi, che vi rivedrete presto. Poi però vostra madre non la rivedrete mai più poiché venite improvvisamente incappucciati, ammanettati mani e piedi e trascinati da un campo di prigionia all’altro per finire nel centro di detenzione di Guantánamo dove trascorrerete 14 anni, 5113 giorni, molti dei quali trascorsi subendo torture e sevizie. A farvi questo non è qualche terrificante e sconosciuta milizia esotica bensì l’esercito della Repubblica Federale degli Stati Uniti d’America. Quale accusa vi fa meritare tutto questo? Non lo saprete mai, o peggio, sapete già in cuor vostro che non c’è nulla del vostro passato che possa avervi fatto meritare umiliazioni e violenze sessuali, privazione del sonno, soffocamento con acqua, pestaggi e violenze psicologiche, solo alcune delle tecniche di interrogatorio ideate dagli psicologi dell’aeronautica militare Mitchell e Jessen evocate nella pellicola.

Questo è stato l’incubo vissuto da Mohamedou Ould Slahi, musulmano della Mauritania, quando viene prelevato, nel novembre 2001, dalla polizia locale in una serata che doveva essere di festa. Slahi ha avuto la sfortuna di rispondere alla telefonata sbagliata nel momento sbagliato, a pochi mesi di distanza dagli orrori dell’11 settembre. Siamo ora nel 2005 ed “the mauritanian” – così lo chiama un altro detenuto, affettuosamente, se comparato al “prigioniero 760” pronunciato dalle guardie – appare al Governo degli Stati Uniti come un buon capro espiatorio, per dare un assaggio della propria determinazione nel condurre la lotta al terrorismo e vorrebbe addirittura condannarlo a morte. È a questo punto che l’avvocatessa paladina dei diritti civili Nancy Hollander (Jodie Foster) e la sua assistente Teri Duncan (Shailene Woodley) prendono in consegna il disperato caso di Slahi. La storia è raccontata attraverso due punti di vista, quella della difesa e dell’accusa. Nancy e Teri, portate in scena con un certo calore, i loro volti sono permanentemente illuminati da tonalità calde (che sia merito del sole o di qualche lampadina d’ufficio) che le umanizzano, dovranno cercare di dimostrare l’innocenza del loro cliente, un’impresa visto che molte testimonianze necessarie alla difesa sono irreperibili o cancellate. Dall’altra parte c’è il colonnello Stuart Couch (Benedict Cumberbatch), freddo, chiuso nella sua divisa e con il repertorio espressivo da cinico e calcolatore, che dovrà cercare le prove che garantiscono l’appartenenza di Slahi al gruppo di Al-Queda. Anche a lui, però, i metodi non ortodossi utilizzati a Guantánamo, complicheranno le cose, finendo per aprirgli gli occhi.

Poi c’è il protagonista, Tahar Rahim, nei panni di Slahi immerso in un’interpretazione che al pubblico italiano può ricordare quella offerta dal nostro Alessandro Borghi nel dramma del 2018 Sulla mia pelle ispirato all’altrettanto triste vicenda di Stefano Cucchi. Uno scontro ideologico è alla base di The Mauritanian ovvero la lotta tra la giustizia, quella che l’America dice di volere, e quella della vendetta personale che porta una nazione a vendicare un odioso crimine compiendone arbitrariamente uno altrettanto odioso. Il titolo di punta del mese di giugno del colosso Amazon Prime Video è un film che coinvolge lo spettatore, più per la vera vera ed angosciante storia che per l’impiego di particolari artifici cinematografici. C’era d’altronde da aspettarselo sbirciando la produzione del suo regista, lo scozzese Kevin Macdonald, dal taglio molto documentaristico come dimostra l’Oscar per il miglior documentario ottenuto nel 2000 per la regia di Un giorno a settembre (che rievoca l’attentato terroristico ai Giochi Olimpici di Monaco ’72) o di film come L’ultimo re di Scozia, che racconta il regime sanguinario del dittatore ugandese Idi Amin Dada o il progetto Life in a Day (2011), un esperimento globale per la creazione del più grande lungometraggio generato dagli utenti, classificato come il primo social movie della storia.