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E se “Dune” di Villeneuve fosse l’inizio della space opera perfetta?

«Non devo avere paura. La paura uccide la mente. La paura è la piccola morte che porta con sé l’annullamente totale». Proprio come Paul Atreides (Timothée Chalamet) in Dune, anche Denis Villeneuve avrà ripetuto a sé stesso questo mantra prima di iniziare le riprese del suo ultimo e gigantesco film. Il regista canadese, noto per pellicole come Blade Runner 2049, Arrival e Prisoners, riparte proprio da dove persino David Lynch aveva fallito, prendendo tra le mani una delle opere più chiacchierate, complesse e affascinati di sempre, ovvero il Ciclo di Dune di Frank Herbert. Lo scopo principale del cinema è quello di narrare con le immagini, traendo spesso spunto da opere letterarie precedenti. Ma come fare quando, come in questo caso, la fonte è considerata impossibile da trasporre sul grande schermo? Sì perché per anni si è pensato che Dune fosse un qualcosa di troppo grande per il cinema, a causa dell’immensa quantità di effetti speciali necessari, la complessità della trama e lo stile narrativo di Herbert basato sui monologhi interiori dei protagonisti.

Villeneuve, ancora come Paul, si eleva al ruolo dell’Eletto, compiendo un vero e proprio miracolo. La sua versione di Dune è infatti un vero e proprio capolavoro sotto tutti i punti di vista. Due ore e mezza di goduria visiva, uditiva e narrativa ci catapultano in un universo lontano sotto tanti aspetti, dove alta tecnologia e magia la fanno da padrona, ma, sotto molti aspetti, non così diverso dal nostro. La sete di potere degli uomini è il motore che alimenta le vicende della pellicola di Villeneuve, dove due nobili famiglie, gli Atreides e gli Harkonnen, si contendo il dominio del pianeta desertico di Arrakis, sede dell’elemento più prezioso dell’universo, la cosiddetta Spezia. Se la prima metà del film risulta molto didascalica e cerca di introdurre i tantissimi elementi narrativi della storia, la seconda metà è un continuo di azione e adrenalina, il tutto accompagnato da una qualità delle immagini pazzesche. Il cast è corale, ma totalmente azzeccato. Timothée Chalamet, il nuovo enfant prodige di Hollywood, è un protagonista perfetto, calato a suo modo nel ruolo del giovane principe che sopporta il peso di un titolo importante e di un destino incerto. Oscar Isaac e Rebecca Ferguson, così come tutti gli altri personaggi secondari, come il perfido Barone Harkonnen (Stellan Skarsgård), suo nipote (Dave Bautista) o il maestro di spada Duncan Idaho, interpretato da Jason Momoa, il Khal Drogo di Game of Thrones. E poi c’è Zendaya, della quale per ora abbiamo visto poco, ma che con i suoi sguardi ipnotizza lo spettatore in ogni frame.

All’apparenza Dune può risultare come uno Star Wars d’autore, cosa in parte anche vera, dato che anni fa George Lucas dichiarò che senza aver letto il romanzo di Herbert, non sarebbe mai esistito Guerre Stellari, ma in realtà rappresenta qualcosa di molto più profondo. Dune è una gigantesca allegoria in primis religiosa, in quanto sono tantissimi i riferimenti alle religioni cristiane, islamiche e induiste, e in secondo luogo politica. Chi non ha immediatamente collegato la contesa di Arrakis al conflitto israelo-palestinese? Il finale di Dune è aperto, infatti sono già in programma una seconda parte e una serie tv prequel, e questo è un peccato, visto che saremmo rimasti volentieri in sala altre tre ore, lasciandoci immergere in un immaginario narrativo al limite della perfezione, messo in scena da Villeneuve in maniera spettacolare e coinvolgente. Gli appassionati della settima arte ringraziano, il cinema è tornato con un prodotto roboante.