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Più che un body horror, “Titane” è un dramma familiare patetico

Oltre due mesi dopo la sorprendente (e per certi versi sconcertante) vittoria della Palma d’Oro, è uscita nelle sale italiane Titane, l’opera seconda di Julia Ducournau, regista francese che aveva già stregato Cannes nel 2016 quando presentò il suo esordio Raw nella Semaine de la Critique – sezione parallela dedicata alla scoperta di nuovi talenti. Se però nel suo primo lungometraggio la Ducournau metteva in scena una violenta metafora del passaggio dall’adolescenza all’età adulta, servendosi di scene sì macabre, ma comunque funzionali al provocatorio messaggio di fondo, in Titane il passo compiuto sembra essere stato più lungo della gamba. Il primo grande problema del film è quello di non riuscire mai a prendere una direzione chiara e univoca, mancando costantemente di compiutezza narrativa. Titane si presenta come un body horror, che dopo un intermezzo a tinte pulp si trasforma in un dramma familiare patetico, costruito su fondamenta fin troppo fragili. La protagonista Alexia, infatti, dopo essere stata ingravidata da un’automobile, compie una strage e fugge, imbattendosi in una figura paterna elettiva, capace di colmare le lacune affettive di quella biologica.

Ebbene, appare evidente come la prima parte del film risulti di matrice cronenberghiana, presentando un esplicito rimando a Crash (1996); laddove però il regista canadese tramite una provocante e provocatoria esasperazione del binomio eros-tanathos ci consegnava l’immagine di una società votata all’autodistruzione (tale era a suo avviso quella statunitense degli anni Novanta), la Ducournau si limita a un citazionismo datato e manieristico, che oltre a banalizzare la poetica di Cronenberg, nulla ha a che fare con il mondo contemporaneo. La finalità sembra dunque solo quella di sconvolgere lo spettatore, come conferma la scena del massacro domestico, fatto di violenza totalmente gratuita, per nulla funzionale allo sviluppo di una trama che sta per sconfinare nel dramma genitoriale. Uno sconvolgimento che può colpire lo spettatore al punto tale da farlo svenire (come realmente accaduto al povero ragazzino seduto accanto a me durante la proiezione), ma che rischia al contempo di suscitare imbarazzante ilarità negli occhi di chi trovi tutto questo un mero esercizio di stile. A onor del vero, bisogna riconoscere che in Titane gli spunti riflessivi non mancano. Il problema però è che non vengono mai adeguatamente approfonditi, restando per l’appunto dei semplici spunti abbandonati a sé stessi.

Il più interessante è senza alcun dubbio quello della tra(n)sformazione della protagonista (la seducente ballerina diventa infatti uno sgraziato vigile del fuoco), che potrebbe prestarsi ad affascinanti letture gender, vanificate tuttavia dal finale, in cui durante il parto Alexia rivendica la propria femminilità. Anche il femminismo di fondo risulta piuttosto spicciolo: la donna che afferma la propria forza facendo sesso con un’automobile (simbolo di virilità) o mediante l’efferato omicidio con arma bianca (simbolo fallico) richiama stilemi cinematografici appartenenti ormai al secolo scorso, a cui forse sarebbe opportuno ricorrere in modo meno didascalico. Per non parlare della scena dell’autobus, in cui le molestie subite da una donna vengono completamente lasciate al caso, restando del tutto ininfluenti rispetto al resto del film. Insomma, le provocazioni sono tante, ma tutte rigorosamente sterili e velleitarie. Visti i macroscopici difetti narrativi appena rilevati, non possono bastare le soddisfacenti performance attoriali e un’estetica per buona parte convincente (seppur sempre autocompiaciuta) a salvare il film da una sonora stroncatura, senz’altro impopolare vista l’intangibilità critica di cui gode troppo spesso la Palma d’Oro (almeno sul web), ma in questo caso purtroppo inevitabile.