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“Joker” di Todd Phillips è un film di supereroi senza eroi

Ho sempre pensato che l’uomo sia un animale dotato dell’abilità di comprendere le ingiustizie, ma al tempo stesso profondamente indifferente. Chi pecca di troppa bontà spesso si ritrova a convivere con un profondo senso di ingiustizia: nessuno è pronto ad accogliere a braccia aperte tanta, troppa bontà senza secondi fini. L’uomo equilibrato invece, quello capace di cattiveria e di gentilezza, bilanciate tra loro in base a ciò che richiede la situazione, l’uomo equilibrato ha tutte le carte in regola per vivere degnamente. Esiste però una terza categoria, quella del sole/luna: quella dell’uomo incompreso, che vive in parte sveglio e in parte assopito. Per tutta una prima fase della sua vita abita il suo ecosistema cercando di non fare del male, di essere buono, mentre la cattiveria che ha dorme da qualche parte, in attesa di essere svegliata o meno. Quest’uomo, spinto verso il punto di rottura, svilito, incompreso da una società che ne ignora i bisogni e affranto dalle famose ingiustizie della vita, realizzerà a un certo punto la sua condizione: metterà a letto la propria bontà e sveglierà il proprio lato malvagio. Il sole tramonta e al suo posto sorge la luna: ecco l’alba di Joker (Joaquin Phoenix), un tempo Arthur Fleck.

Joker non è un film, men che meno un comic movie; Joker di Todd Phillips è un’indagine sociale e psicologica della società e un capolavoro di marketing: in un panorama cinematografico in cui trionfa il mediocre, il fumo negli occhi, Phillips ci porta tutti in sala con l’inganno. È stato facile; è bastato chiamare il film Joker per promettere incassi da record. D’altronde i film che più hanno guadagnato negli ultimi anni sono loro, i superhero movie. La morale perciò qual è? È profondamente disturbante e grottesca: Joker, il famoso antagonista numero uno di Batman, non nasce cadendo in una tinozza d’acido, non è un esperimento riuscito male; non è il tipico cattivo che è cattivo e basta, punto. Joker, per quanto possa suonare assurdo e inquietante, ha delle ragioni, e non vuole essere più ridotto ad un clichè di cattiveria gratuita. La stessa società che ha creato Batman, che è tutto meno che distopica e fittizia, ha creato anche lui. Batman però è l’eccezione; è nato nella Gotham bene, quella ricca e protetta, quasi un ecosistema a sé stante. È quella la Gotham che tutela, senza mai averne vissuto la vera faccia, il lato della medaglia arrugginito in cui ha sempre abitato Fleck. E infatti nel film di Phillips, Batman non c’è; c’è solo Bruce.

Il suo è un film di supereroi senza eroi e questo lo rende grottescamente verosimile. Vero. Per questo penso che lo spettatore in sala dovrebbe provare un profondo senso di paura, una volta levato il velo da davanti agli occhi e capita la vera natura del film: perché raramente capita che il cattivo, quello non edulcorato o caricaturizzato (come erano invece quelli di Suicide Squad) non sia quasi mai il protagonista? E perché, se lo è, si trova a combattere con qualcuno di ancora più cattivo? Perché analizzare il vero villain è pericoloso. Significa indagare psicologicamente la natura di un uomo che ci siamo abituati a non vedere più come tale. Un uomo inumano, che abbiamo dimenticato che deve essere diventato così. Ecco il vero pericolo, l’origine della paura: Joker è come potremmo essere, ed era come siamo. È umano, ha sentimenti, paure, sofferenze e, attenzione, motivazioni. Non è spinto da una rabbia cieca e immotivata. La sua è una vendetta, il che intrinsecamente può voler dire solo una cosa: dove c’è vendetta, c’è un torto. E se il colpevole non è una sola persona, ma la società tutta, chi di noi può dirsi al riparo?