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“Last Night in Soho” funziona, nonostante una Anya Taylor-Joy troppo Beth Harmon

L’ultima fatica di Edgar Wright (sì, quello di Baby Driver) consiste in un film godibilissimo e ad alto impatto cinematografico, seppur non esente da difetti (soprattutto di scrittura). La sinossi è piuttosto semplice: una ragazza di campagna di nome Eloise (Thomasin McKenzie) si trasferisce a Londra per seguire il sogno di diventare una stilista. Dotata del potere di vivere le esperienze di vite passate, entra in contatto con lo spirito di Sandy (Anya Taylor-Joy), attraverso cui scopre il fascino (e i pericoli) della Swinging London. In un mondo in cui non sembra esserci più spazio per il futuro, i giovani tendono sempre più a rifugiarsi in un passato per forza di cose idealizzato. Edgar Wright è bravissimo ad intercettare questa esigenza (particolarmente sentita nella generazione Z) e, catapultando la protagonista negli anni Sessanta da lei tanto agognati, trasforma il sogno di tantissimi ragazzi in realtà, sfruttando nel migliore dei modi il mezzo cinematografico a sua disposizione.

L’ingresso di Eloise nella Swinging London è audiovisivamente stupefacente e vale da solo il prezzo del biglietto: scenografia accurata sin nei minimi dettagli, fotografia brillante nel giocare con le luci al neon, costumi pregevoli e, soprattutto, musiche diegetiche sempre iconiche e riconoscibili. La regia risulta poi particolarmente abile nel giocare con il tema del doppio, facendo ampio ricorso agli specchi e ammiccando a quel capolavoro intitolato La donna che visse due volte e firmato da Alfred Hitchcock. Insomma, tutto molto bello, se non fosse per il fatto che Edgar Wright voglia trasformare il più fascinoso dei sogni nel peggiore degli incubi (cosa in cui però non riesce altrettanto bene). La pellicola, infatti, pur aprendosi con i toni tipici della teen comedy, ripiega presto sugli stilemi dell’horror psicologico, rivisitando in chiave postmoderna Repulsion, dichiarato modello di riferimento del film. Anche Eloise, come la tormentata Catherine Deneuve di Polanski, sembra nutrire una crescente androfobia, conseguentemente declinata in sessuofobia: se però in Repulsion l’origine del turbamento è da attribuire a una violenza presumibilmente subita durante l’infanzia, in Last Night in Soho Eloise è influenzata dai soprusi patiti nei panni di Sandy sessant’anni prima. Tutti gli uomini, pertanto, iniziano ad essere percepiti dalla protagonista come un’incombente minaccia, al punto tale da essere rappresentati come gli zombie di Romero (già parodiati da Wright ne L’alba dei morti dementi).

Sorgono a questo punto due problemi: il primo consiste nell’eccessiva reiterazione del tema in esame, che appesantisce notevolmente un ritmo narrativo sino a quel momento frenetico; l’espediente degli uomini-zombie si fa infatti sempre più invasivo, perdendo progressivamente di originalità e incisività. Il secondo problema risiede invece nel finale, che senza fare spoiler mi limito a definire confuso sia sul piano stilistico che su quello semantico. La scelta di trasformare gli uomini-zombie da carnefici a vittime appare piuttosto contraddittoria con il tema del me too coerentemente portato avanti fino a quel punto. Malgrado i difetti, il film merita comunque la visione in sala, trattandosi di una delle esperienze cinematografiche più memorabili di questo (tutto sommato soddisfacente) 2021. Il botteghino al momento langue, ma la speranza è che il carisma di Anya Taylor-Joy (che non sembra ancora del tutto uscita dai panni di Beth Harmon ne La regina degli scacchi) possa attirare quanti più spettatori possibili al cinema.