L’ultima fatica di Guillermo Del Toro, La fiera delle illusioni, consiste nell’adattamento cinematografico di Nightmare Alley di William Lindsay Gresham – già trasposto sul grande schermo da Edmund Goulding nell’omonimo film del 1947. All’epoca la pellicola indignò profondamente il pubblico, al punto da spingerlo a disertare il botteghino (Tyrone Power era infatti un divo troppo amato per vestire i panni del controverso e respingente mentalista Stanton Carlisle, qui interpretato da Bradley Cooper). È curioso notare come, a distanza di 75 anni, l’accoglienza del pubblico sia sostanzialmente rimasta la stessa. Il film ha registrato un clamoroso insuccesso al box office statunitense e approda in Europa in cerca di miglior fortuna. Difficile possa trovarne molta. Il motivo lo individua lo stesso del Toro, il quale, senza nascondersi dietro le difficoltà pandemiche, rivela candidamente che la sua opera è destinata all’impopolarità, poiché «è come se reggesse uno specchio davanti allo spettatore». La pellicola in esame, sebbene presenti uno stile d’altri tempi, forse ancora più classico dell’adattamento di Goulding (Del Toro incrementa la pioggia, le ambientazioni notturne e le sigarette, tutti stilemi tipici dei noir anni Quaranta), si dimostra attualissimo nel messaggio di fondo, rivolgendosi a un pubblico assuefatto a fake news costruite sulla base di algoritmi che rielaborano i big data. D’altra parte, non è forse questa l’abilità di un mentalista?
Osservare attentamente le persone, carpirne tutti dati empiricamente reperibili dai dettagli, studiarli, interpretarli e rielaborarli al fine di ingannare chi, senza accorgersene, li ha suo malgrado forniti. Non è un caso che la sceneggiatura non perda occasione per rivelare i trucchi del mestiere, soffermandosi sulle modalità attraverso cui il protagonista riesce volta per volta ad incantare lo spettatore (prima ancora che i personaggi). Quest’aspetto veniva invece trascurato dal film di Goulding, in cui mentalismo, psicoanalisi e chiaroveggenza finivano per convergere in una pericolosa spirale di ambizione e sfrontatezza, che aveva l’evidente scopo di ammonire gli americani del Dopoguerra pronti a fare il passo più lungo della gamba, cavalcando con troppa superficialità l’onda dell’imminente boom economico. Insomma, il soggetto è il medesimo, ma il film si trasforma al mutare del contesto e del destinatario. L’adattamento di Del Toro presenta inoltre ulteriori aspetti innovativi: alcuni, inevitabilmente figli della contemporaneità e quindi piuttosto banali, ma comunque meritevoli di menzione, altri invece più sottili e profondi. Rientrano tra i primi il ricorso allo splatter e più in generale a una violenza postmoderna per forza di cose impensabile nel 1947 (basti pensare che nella versione di Goulding il geek, personaggio chiave del film, è sempre fuori campo); così come solo oggi è possibile assistere a un finale tanto pessimistico e inquietante (75 anni fa la Fox impose un lieto fine forzato e piuttosto edulcorato, che strideva molto con i toni turpi del film). Più attenzione bisogna invece dedicare al cerchio e al treno, elementi cardine de La fiera delle illusioni di Guillermo Del Toro.
Il film è caratterizzato da una struttura rigorosamente circolare, che coinvolge sia il piano visivo che quello narrativo. Il cerchio è infatti la forma scenograficamente prevalente e si rivela utile ad assolvere una duplice funzione: da una parte attira l’attenzione dello spettatore (è scientificamente riconosciuto che la rotondità attrae più delle altre forme l’occhio umano, come testimoniano molti loghi e pubblicità tondeggianti d’oggi giorno, anche loro frutto dei big data), dall’altra serve a chiudere il protagonista in una morsa sempre più soffocante, dalla quale non ha scampo (come dimostra anche il finale, allo stesso tempo tragico e beffardo). Il treno è invece l’elemento che conferisce alla pellicola una chiave di lettura onirica, anche questa classicamente noir, eppure difficilmente riscontrabile nell’adattamento di Goulding. All’inizio del film, infatti, dopo aver dato fuoco alla casa paterna, Stanton prende un treno e si addormenta. Nel finale, dopo oltre due ore di peripezie, egli finisce nuovamente su un treno e si riaddormenta. Memori della lezione di Fritz Lang ne La donna del ritratto (capolavoro noir del 1944), la domanda sorge spontanea: e se La fiera delle illusioni altro non fosse che un sogno del protagonista? E se il successo tanto agognato, così faticosamente ottenuto e poi rapidamente dissolto, non fosse altro che la mera consapevolezza di un inconscio turbato dal parricidio? E se il desiderio di illudere non fosse esso stesso un’illusione? Allo spettatore l’ardua sentenza.