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“The Fabelmans” di Steven Spielberg è il film dell’anno, siamo tutti d’accordo?

Il potere di “The Fabelmans” sta nella meravigliosa capacità di far convivere urgenza personale e attenzione alle necessità narrative.

«I dream for a living» («Mi guadagno da vivere sognando»): con questa dichiarazione, rilasciata nel 1985 durante un’intervista al TIME, Steven Spielberg ha offerto la più calzante sintesi della propria sterminata filmografia, che al tempo dell’intervista era iniziata da poco più di un decennio e che oggi, quasi quarant’anni dopo, continua ad arricchirsi. Nel 2021, il regista celebra il cinquantesimo anno di attività nel lungometraggio con un remake del super-classico West Side Story, nel quale l’ottimismo che solitamente caratterizza l’universo spielberghiano soccombe di fronte alla funerea presa d’atto dell’impotenza del cinema davanti al crollo del sogno americano e della mitologia ad esso collegata. L’anno seguente, dando riprova del proprio eclettismo, il maestro firma un’opera, The Fabelmans, completamente diversa e per molti aspetti complementare, in cui l’attenzione al sociale di West Side Story lascia spazio alla dimensione personale del ricordo, dell’autobiografia, della meditazione sul proprio percorso e sulle origini di una passione che ha portato il pubblico a identificare Spielberg stesso, più di qualsiasi altro regista, con il cinema americano tutto.

The Fabelmans arriva in un momento in cui l’autobiografia d’autore, in casa Netflix ma non solo, sembra essere diventata una vera e propria mania: solo tra il 2021 e il 2022, infatti, Venezia e Cannes hanno presentato È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino, Bardo di Alejandro Gonzalez Inarritu e Armageddon Time di James Gray. Sorrentino (che guarda all’Amarcord del suo amato Fellini), Inarritu (ispirato da 8 ½, sempre di Fellini) e Gray (che ha come riferimento I 400 colpi di Truffaut) sono registi all’apice della carriera, già premiati e celebrati ma ancora relativamente giovani, che hanno scelto di raccontare sé stessi per andare incontro alla consacrazione definitiva. Steven Spielberg, al contrario, ha iniziato a rivoluzionare il cinema negli anni Settanta, ha passato i decenni della massima popolarità ad eclissarsi dietro alle mitologie che creava per il grande schermo e non ha certo bisogno di rendersi personaggio per consegnarsi alla storia: la sua autobiografia, lontana anni luce dall’autocelebrazione, non è un tentativo di consacrazione, ma un regalo che il regista ha deciso di fare al pubblico. Spielberg sceglie di raccontarsi adesso, a settantasei anni appena compiuti, con quattro Oscar alle spalle e un pantheon allargatissimo di film e personaggi ormai mitici; ben consapevole del potere immaginifico delle storie e dell’epica, il regista ha sempre scelto di lasciar parlare i suoi personaggi e di limitare le ingerenze dell’autorialismo, creando dei mondi narrativi alla portata di qualsiasi spettatore – anche bambino – e venendo spesso accusato di realizzare prodotti troppo commerciali, astuti e poco personali.

La commozione che nasce dalla visione di The Fabelmans – in cui Spielberg mostra quanto le opere della maturità siano in un certo senso dei remake in grande stile dei filmati che realizzava artigianalmente con familiari e amici – deriva in gran parte dalla scoperta della dimensione biografica che sta dietro al blockbuster; anche un film come Salvate il soldato Ryan, che chi scrive ha sempre accusato di militarismo, assume una diversa valenza se inserito nella dimensione del rapporto con il padre, che prestò servizio nella Seconda Guerra Mondiale, e dell’innamoramento per il grande cinema bellico della Hollywood classica. Spielberg, raccontando sé stesso, narra la storia del cinema: conscio di questa straordinaria sovrapposizione, adotta un registro classico nella prima parte del film, dedicata all’infanzia vissuta con la famiglia negli anni Cinquanta, e passa a uno stile moderno, che guarda alla New Hollywood, per dipingere la propria adolescenza californiana. Spielberg, lontanissimo dal fellinismo dilagante nell’autobiografia, per la seconda parte del film prende a modello di riferimento American Graffiti, omaggiando il coming of age per eccellenza della Hollywood moderna e celebrando al tempo stesso il proprio rapporto con il regista George Lucas, collega e soprattutto amico dagli anni Settanta. Gran parte dell’eccezionalità di The Fabelmans sta proprio in questa meravigliosa capacità di far convivere urgenza personale e attenzione alle necessità narrative, autobiografismo e pura costruzione cinematografica, sentimentalismo e lucidità metatestuale.

L’autobiografia di Spielberg, pur configurandosi come la più sincera delle confessioni, non è un’elucubrazione autorialista, ma cinema hollywoodiano in tutta la sua universalità. Il rapporto con e tra i genitori, complice la bravura di Michelle Williams e Paul Dano, è tratteggiato con una delicatezza commovente, ma il vero cuore del film risiede nella relazione viscerale con il cinema stesso, meravigliosa liberazione e autorealizzazione del giovane regista ma anche dolorosa ossessione – poche sequenze, nella filmografia di Spielberg, sono strazianti come il momento in cui l’alter ego Sammy (splendidamente interpretato dal giovanissimo Gabriel LaBelle) vede sé stesso filmare una lite familiare. Il cinema è il mezzo con cui Spielberg dà un significato al proprio vissuto – l’instabilità della madre, l’incomprensione del padre, l’antisemitismo dei coetanei – e si riconcilia con il passato, tornando in quella dimensione familiare che aveva superato proprio per inseguire il sogno di fare cinema. Nel finale, pervaso dalla raffinata ironia che caratterizza tutto il film, Spielberg affida il ruolo dell’adorato John Ford al collega David Lynch, autore di un cinema lontanissimo da quello del maestro del western: l’ultima e fondamentale lezione, impartitagli da questa figura irresistibile e riassuntiva, Sammy la apprende dal cinema stesso.