dark mode light mode Search Menu
Search

Jack the Smoker, il rap dentro di me

Jack the Smoker torna con un album che è la presa di coscienza di un uomo adulto, di un padre, di tutto ciò che gli è accaduto nel percorso: «Credo sia uno dei dischi italiani più rap della storia recente»

Nell’industria musicale odierna quattro anni sono un’eternità. Il fast food corre veloce, tempo ce n’è sempre meno e la corsa alla hit è ambita ogni santo venerdì, per essere poi santificata il lunedì successivo da sua maestà FIMI. In controtendenza rispetto ai canoni musicali ed ai dettami dell’industria, Jack the Smoker se n’è sempre abbastanza fregato di sottostare ai suddetti canoni. Il primo disco (L’alba, sotto il nome La Créme, in coppia con Mace) è stato un oggetto di culto per tantissimi anni; il secondo si è fatto attendere in maniera spasmodica, diventando poi immediatamente apprezzatissimo dagli amanti del rap. Col terzo, e la firma in Machete, l’hype è cresciuto esponenzialmente, accompagnato dalle ipotesi su cosa il collettivo più forte d’Italia potesse donare ad uno dei rapper puri più apprezzati. Arriviamo a Ho fatto tardi, che già dal titolo racchiude in sé tanto del Jack artista ed autoironico, uscito però in quel periodo buio della pandemia, che non ne ha esaltato le foto ed i banger che conteneva (uno su tutti, il pezzo con Lazza e Jake la Furia). L’ultimo step, Sedicinoni, si arricchisce della collaborazione in tutti i brani di Big Joe, on la sana fame di scavare nei sample e trovare sempre il fit adatto all’artista. Jack non si affidava ad un singolo produttore dal primo disco, Joe è sempre stato metà di un binomio inscindibile con Johnny Marsiglia.

A due teste così non si poteva chiedere di rappare sull’onda del momento, sul trend lanciato da TikTok: se avete quest’idea non mettete in play il disco. Sedicinoni è stato lanciato con un teaser cinematografico, senza singoli precedenti. L’attenzione doveva essere sul progetto in sé, nella sua piena interezza, come ormai è raro capiti. Incontro Jack the Smoker in un pomeriggio cupo, col cambiamento di temperatura che non si sa se devi uscire in maniche corte o col bomber. Lui per non sbagliare ha sempre gli occhiali da sole, a mascherare la poker face come ad un tavolo verde.

Come hai vissuto le tappe di avvicinamento a Sedicinoni?
Ho talmente tanti casini nella vita quotidiana che all’uscita del disco ci ho pensato poco, mi ha aiutato a relativizzare le ansie. Ma poi questo disco non mi ha trasmesso ansia, sono molto sereno e consapevole di aver fatto ciò che andava fatto.

Quattro anni di distanza da Ho fatto tardi: ci sono state differenze nell’approccio creativo?
Rispetto ad Ho fatto tardi è cambiato sicuramente l’approccio alle produzioni, qui c’è un solo beatmaker, mentre nel precedente il suono aveva meno coesione, nonostante non fosse il classico disco compilation. C’erano anime diverse, qualche pezzo dalla sfumatura meno rap. Qui ci vedo più coerenza sonora, senza però risultare alla lunga monotono. 
In più ai tempi ci fu anche l’imprevisto COVID, il tergiversare o il pubblicare immediatamente, l’incertezza dovuta a quello strano periodo, tant’è che poi a luglio pensavamo di suonare e portarlo live, ma non accadde così. Sedicinoni è improntato su una maggiore serenità, sotto tutti gli aspetti: il suono mi faceva sentire molto a casa mia, l’approccio cinematografico che ha dato il titolo è emerso in maniera spontanea, durante il percorso creativo. Non è stato un disco facile, ma sicuramente sereno, divertente, io e Joe (Big Joe ndr.) abbiamo dato ampio respiro al sound che ci piaceva, senza fare troppi calcoli.

Perché questo titolo?
Rappresenta in maniera chiara lo stile narrativo del disco, come un filtro, un formato di narrazione. Tutte le cose che racconto, prese dalla realtà, dall’osservazione, dalla mia biografia e da quella di persone vicine a me, ma raccontate tutte con questo tipo di sound mega evocativo, per mezzo della mia narrazione, mi richiamava qualcosa di cinematografico. Sedicinoni racconta quel tipo di approccio, quel tipo di formato che ben si addice allo stile narrativo del disco.

Visto che ne hai parlato, qual è il tuo rapporto col cinema?
Paradossalmente non sono un gran fruitore, uno che dice “ah questo è il mio regista preferito!”. Ovviamente mi piacciono tutti i grandi classici del cinema, da Spike Lee alla trilogia de Il Padrino, passando per Brian De Palma, Robert De Niro… tutto ciò che ha anche influenzato la musica hip-hop in sostanza. Ho avuto un momento in cui mi sono chiuso con le serie TV, mi piaceva seguire una storia che si sviluppava in un tempo maggiore delle classiche due ore. Anche se poi ha preso piede la tendenza a volerle tirare all’infinito, visto magari il successo riscosso con le prime stagioni si va avanti in maniera esagerata, quindi anche qui sto un po’ perdendo la tendenza a seguire serie che non siano già terminate. Ti faccio l’esempio di The Handmaid’s Tale: era una delle mie preferite, ma l’hanno tirata avanti eccessivamente, facendomi perdere la voglia di seguirla. Ecco, la distopia come tema mi intriga un sacco, sia nel cinema che nelle serie.


Sei sempre stato uno che si è preso il suo tempo, sin da V.Ita nel 2009. Cosa pensi invece della piega che sta prendendo l’industria musicale, in cui sembra che tempo invece non ce ne sia mai?
Far trascorrere così tanto tempo non è la cosa giusta da fare, sicuramente, ma mi è sempre interessato poco, anche perché ho sempre giocato in un campionato mio. Mi piace aspettare che il mio cervello elabori una serie di informazioni o di eventi di vita personale, tali per cui io riesca a fare qualcosa di nuovo, ad aggiungere qualcosa ad un percorso narrativo che da L’alba in poi è sempre stato coerente. Si sente che sono sempre io, ma se ascolti tutti i miei dischi sono spaccati di momenti storici diversi: V.Ita ha un certo tipo di sconforto, di uno che esce dal post-adolescenza; Jack Uccide la voglia di spaccare tutto con Machete, le rime da battaglia; Ho fatto tardi uno sguardo post momento entusiasta.

Mentre Sedicinoni?
È la presa di coscienza di un uomo adulto, di un padre, di tutto ciò che mi è accaduto nel percorso. 
Non è una cosa intelligente da fare, però il mio picco creativo viene fuori anche con un certo tipo di elaborazione dei contenuti, magari continuando a riempire il cellulare di rime ad effetto: anche quello fa tanto.

Con Ho fatto tardi ti chiesi il perché dell’eterogeneità nella scelta delle produzioni, oggi invece hai scelto le sapienti mani di Big Joe. Un rapporto che nasce da lontano, ma come mai proprio lui?
Perché Big Joe è il miglior producer in Italia a fare il rap fatto bene, il rap classico ma con sonorità attuali. Ci tengo tanto al fatto che la nostra musica sia classica ma nuova, non sia una celebrazione noiosa di una cosa che è già stata fatta meglio. Se volessi emulare i Mobb Deep sarei noioso, perché sono più forti, hanno fatto sta roba già trent’anni fa… mi piace sempre aggiungere qualcosa alla mia produzione ed alla freschezza delle metriche, dei ritornelli, non annoiando me stesso in primis quando faccio le cose.


Quali sono i punti di incontro tra Palermo e Pioltello?
Jack the Smoker
: Pioltello è piena di palermitani (ride, poi entra Big Joe ndr.)
Big Joe: Ma Palermo non è piena di pioltellesi! Tornando seri, il progetto nasce da No problema, il primo singolo. Gli avevo mandato questa produzione, quando me l’ha rimandata indietro con le strofe sono impazzito, era incredibile. Da lì è stato naturale, dovevamo solo divertirci e fare quello che ci piace. Siamo stati poco in studio assieme, è stato un rapporto prettamente a distanza, però non è mancata l’energia e la voglia di fare un disco rap.
Jack the Smoker: Poi appunto c’è la magia che, nonostante non fossimo fisicamente uniti, il disco è molto coeso. Ci sentivamo tutti i giorni, videochiamate, ma la vibe è stata di grande intesa sin da subito.

Big Joe: Poi ci conosciamo da anni, era quasi destino che prima o poi le nostre strade si sarebbero incrociate. Un sacco di volte ci siamo detti: “Perché non l’abbiamo fatto prima?”.

Sta tornando di moda il binomio rapper-producer nei dischi, è ufficiale.
Jack the Smoker
: La solita vecchia formula. Dai Gang Starr, ma anche gli stessi Mobb Deep. Ce n’è veramente un miliardo, ed è una cosa mega mega rap. Ci si diverte un sacco, perché i dischi per essere tali non devono essere compilation e se un producer è bravo ti sa creare le atmosfere versatili per un disco intero. Ma stiamo parlando di Joe, che ti può fare la trap fatta bene, il classico, ti può fare la roba slow, la R&B. Ha capito la roba che volevo fare, che amiamo entrambi, che è il rap, i beat con dei bei sample, le metriche. Siamo proprio delle teste hip-hop, a quarant’anni ci esaltiamo come dei bambini.

Al centro di questo progetto resta marcatamente il rap nella sua forma più pura, quello pieno di barre, e conoscendoti non poteva essere altrimenti.
Jack the Smoke
r: Non voglio fare statement, ma credo sia uno dei dischi più rap della storia recente del rap italiano. Non ho paura a dire questa cosa. Pensa che anche solo sette o otto anni fa sembrava un’eresia, una parolaccia. Non faccio la guerra alle altre wave, però ad un certo punto fare il rapper sembrava una bestemmia. Ma questa roba non muore, anzi, sta per vivere una seconda gioventù: nel mondo è già arrivata, in Italia abbiamo i nostri tempi ma sta arrivando anche qui. Bisogna trovare rapper e produttori bravi per far capire alla gente che il rap è figo.

E spesso ti fanno passare per rap ciò che poi rap non è…
Jack the Smoker
: C’è ancora una difficoltà culturale nel comprendere certe dinamiche del rap. Poi ognuno è libero di ascoltare quello che vuole, non sarò io a puntare il dito contro, ma semplicemente c’è poco filtro perché ci sono pochi ascolti di ciò che non è rap italiano, in Italia. Un po’ come se giochi nello Sri Lanka a calcio e guardi solo il campionato dello Sri Lanka: non capirai mai come si fa della tattica in campo, perché manca proprio culturalmente questa cosa.


A fianco però al solito Jack che conosciamo, c’è pure un lato molto più intimo che finora era emerso meno.
Jack the Smoker
: In generale la vita personale per me è un argomento molto delicato, il rischio di cadere nella retorica è sempre molto alto. Io sono un gran nemico dei messaggi stereotipati, quindi vado sempre coi piedi di piombo. Però certe produzioni, certi avvenimenti nello stesso periodo mi hanno tirato fuori la voglia di parlare anche di cose molto, molto delicate. Sui miei figli, ad esempio, non ho mai messo mezza foto di essi sui social: rivendico il loro diritto ad essere inesistenti fin quando vorranno loro. C’è per me una grande violenza nel mettere i figli sui social se sei un personaggio pubblico. Questa cosa evito tuttora di farla, anche se sarebbero like facilissimi perché sono fichissimi i miei figli! Tendenzialmente sono cose su cui vado molto prudente e cerco di essere delicato.
 Le cose che racconto sono dinamiche che le persone che vivono la paternità possono comprendere. Le altre cose personali, come per esempio ciò che racconto in Spine, sono racconti forti ma che non scadono nel gossip facile. Sono spontanei, emergono con grande sofferenza ma hanno alla fine anche una funzione catartica: sono contento di aver fatto quel pezzo, anche se mi viene l’ansia anche adesso a pensarci.

Lo hai volutamente messo in chiusura di disco immagino.
Jack the Smoker
: Sì, è stato voluto. Anche ciò che canta Shari nel ritornello secondo me è importante. “So che fa paura ma va tutto bene, è bello ma fa male” è un bel messaggio per fine disco.

Sin dal trailer hai voluto mettere al centro (presumo) il posto da dove vieni, le tue zone, la tua gente, dando ampio respiro al tuo passato.
Jack the Smoker
: Vivo a Cologno da tanti anni ormai, molte delle cose che racconto le ho vissute lì, sono testimonianze di cose che sento, vedo e vivo in prima persona. È un potpourri di cose, di eventi di adolescenza, di racconti di persone vicine a me. C’è tanto la componente del luogo in cui vivo, che si fonde con la parte grafica del disco: è bello perché è una delle poche volte dove tutto quadra e si incastra a trecentosessanta gradi. Il sound racconta, io racconto, le immagini raccontano, le grafiche parlano.



Balza all’occhio subito la mancanza dell’altra metà de La Crème, Mace, con cui avevi collaborato in OBE. Nulla togliere a Joe, ma non c’è stato modo, ad anni di distanza?
Jack the Smoker:
Mace è in un altro momento storico della sua produzione. Nel suo disco bellissimo nuovo, MĀYĀ, c’è un altro tipo di approccio. Anche ciò che lui fa narrare alle persone ospiti sulle atmosfere del suo disco è un viaggio diverso. Chiaramente io e Mace ci conosciamo dalla terza media, sugli scalini di scuola abbiamo scoperto assieme di condividere gli ascolti prima per la musica progressive anni Novanta, poi per il Deejay Time ed il OneTwo OneTwo. Abbiamo fatto il primo disco assieme, col microfonino in camera, la foto di DJ Premier. C’è troppo amore, che non finirà mai, c’è un dolce ricordo di queste cose, però chiaramente poi ognuno ha intrapreso un discorso diverso. Io sono rimasto ancorato più strettamente al rap, lui è uno che sperimenta di più, nella vita, nel sound. Abbiamo proprio un approccio diverso, poi chissà: siamo due persone che condividono una grande passione per sta musica, la voglia di pensare ad essa da quando ti svegli fino a quando vai a dormire. Questo disco solo Joe poteva farlo così.

La strumentale che vi è costata di più, quella più complessa?
Big Joe:
Forse Spine. Il pezzo riteneva un’importanza maggiore anche nella cura del sound. Ho lavorato con molti musicisti nel brano, che hanno suonato varie parti del pezzo. Certamente è stato il più complesso, ma anche tra quelli che più alla fine mi han dato soddisfazione. Tutto il resto è stato molto semplice.
Jack the Smoker: Se vedi i credits di Spine sembra ci sia la Filarmonica di Vienna (ride ndr.), una lista infinita.

Collaborazione della vita, quella con Conway?
Jack the Smoker:
Pensi sia una di quelle cose che non possano succedere, poi invece accadono nei modi in cui devono succedere queste cose. Ma è tutto giusto, molto spesso i featuring americani ed italiani non stanno bene assieme, o diventano una citazione del solito sound. Noi avremmo potuto fare la classica roba Griselda cruda, tutta scura, ed invece abbiamo scelto di metterlo su un beat adatto a lui, ma non sulla stessa atmosfera su cui lavora spesso. Lui alla fine è uno bravo a rappare, col flow giusto, quindi gli metti un beat rap fatto bene, non con le solite arie, ed il pezzo è presto fatto. Ritengo che Funema sia tutto giusto, nonostante inizialmente mi sia reso conto di aver fatto un rit mezzo cantato su un pezzo con Conway. Mi sono detto subito “Chissà se esploderà il Pianeta?”. Alla fine diventa anche giusto nell’economia del disco: inserito in mezzo a due tracce molto molto intense, dando un tocco di leggerezza.

Che uno la leggerezza se la aspettava in PIMP ed invece…
Jack the Smoker:
Esatto, infatti mi è venuto da ridere quando ho messo il titolo, sto aspettando cosa si immagina la gente da quel pezzo lì.

Come pensi sarà portare il disco in tour?
Jack the Smoker:
Vediamo cosa succede, ma questo è troppo un disco da portare live, speriamo di fare un sacco di date, ed è anche il motivo principale per cui Joe è qui a Milano. Siamo gasati, io lo sono come raramente mi è capitato nella mia carriera personale. Abbiamo già una data zero, a Verona, organizzata da Zampa, un grande amico. Verona è la città ideale per testare cosa ne pensa il pubblico.

C’è qualcosa che vi ha influenzato nella creazione del disco?
Jack the Smoker:
98% Smeezy ed una punta Nas! Ci ha stimolato molto l’idea di Nas ed Hit-Boy, lui che veniva da un periodo complesso, il fatto che si siano trovati, ha trovato le produzioni giuste. Cinque dischi in tre anni, una fotta incredibile. Ci siamo un po’ rivisti in loro, e poi Joe è più forte di Hit-Boy. Io non posso dire di essere più forte di Nas.



Foto: Roberto Graziano Moro
Digital Cover: Simone Mancini/Jadeite Studio
Coordinamento redazione: Emanuele Camilli
Ufficio stampa: Help PR & Media Relations