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Luzai, radici da un luogo inatteso

Come le piante che mettono radici dove nessuno guarda, Luzai cresce nella crepa del cemento: canta, crea e resiste. “Estranea” non è solo un EP, è un gesto politico, un’architettura sonora intima e potente

In botanica esiste un fenomeno affascinante chiamato radicazione avventizia. Alcune piante, in condizioni estreme, riescono a sviluppare nuove radici in punti insoliti: lungo il fusto, su una foglia, addirittura da un ramo spezzato. Non è un capriccio della natura, ma un istinto di sopravvivenza. È come se dicessero: non posso più crescere dove dovrei, quindi crescerò dove posso. Questo principio – biologico, poetico, necessario – sembra contenere, in filigrana, tutta l’essenza di Luzai. Cantautrice e produttrice di origini camerunesi e italiane, Luzai è una delle voci più originali del panorama avant-pop italiano ed è senz’altro una di quelle poche cose che ti danno la sensazione di aver trovato musica difficile da prevedere, in uno scenario che invece, il più delle volte, scopre le carte già prima del ritornello. Con Humana e Testa, i brani che hanno anticipato il suo nuovo EP, Estranea, uscito per Asian Fake, Luzai non si limita a scrivere due canzoni: scolpisce due territori. Due geografie intime in cui il corpo, la voce e il suono diventano strumenti per resistere, per affermare la propria presenza, per reclamare spazio. “Percorri la mia pelle e cerchi le risposte”. C’è già tutto, in questo verso. Perché Humana è un brano che pulsa di consapevolezza, ma anche di inquietudine. È un inno fragile e potente, che parla del sentirsi stranieri in casa propria. Non è un semplice racconto autobiografico: è una dichiarazione politica, un grido sussurrato che si fa atto di resistenza.

Il suono si muove tra pop elettronico, ambient e glitch, in equilibrio instabile tra beat contemporanei e tensione emotiva. Le influenze si colgono – FKA Twigs, Arca, Sevdaliza – ma non sovrastano mai: Luzai riesce a rendere ogni riferimento qualcosa di personale. «Credo che la vulnerabilità sia una delle poche cose capaci davvero di connetterci agli altri», racconta. «Per molto tempo ho nascosto la mia fragilità, per proteggermi. La vita mi ha spinta a costruire una corazza e sono sempre stata educata alla forza. Solo da adulta ho imparato a darle spazio, a educarla. Oggi cerco l’equilibrio tra gioco e consapevolezza». Il videoclip amplifica il senso di Humana: ambienti urbani, cemento, desaturazione, dettagli di corpi e occhi che cercano. Humana è tutto ciò che ci viene detto che non siamo: è riappropriazione. Ma è con Testa che si raggiunge lo spannung di questa prima parte di un racconto ancora tutto da scoprire. Se Humana è il desiderio di manifestarsi, Testa è il suo doppio oscuro. È la consapevolezza che non si può sfuggire a sé stessi. Il brano è claustrofobico, teso, sporco. «Testa non è una resa. È un rituale. Affrontare il vuoto – anche se fa male – è necessario. Nel video volevo raccontare tutto questo attraverso il corpo e il movimento. Ho lavorato con il mio team visivo, Matteo Strocchia e Marco Servina, e ho coinvolto la coreografa Klea Habibi. Mi ha ispirata anche un artista che ho scoperto su Instagram, Nouses Motomi, e coreografi come Ztato».

Il ritmo ipnotico, la voce che si scompone e si sovrappone, i suoni che si avvitano su sé stessi: Testa è una discesa simbolica, quasi junghiana. Salire e scendere raccontano fatiche interiori. E Luzai lo fa con una grazia spietata. La sensazione è che stia costruendo un linguaggio. Ogni brano, ogni videoclip, ogni scelta sonora è parte di una costruzione coerente, immaginifica, a tratti cinematografica. Non c’è nulla di compiacente in quello che fa. Eppure tutto è bellissimo, nel senso più profondo: ciò che scava, che mette a disagio, che non si lascia spiegare ma che resta dentro. «Se penso a un regista che ammiro, direi Christopher Nolan. La sua capacità di costruire universi intricati mi affascina e mi sconvolge. Un giorno mi piacerebbe moltissimo realizzare una colonna sonora, magari per la scena di un film come Interstellar. Quel film mi ha colpita nel profondo, anche per come usa il suono». Negli anni in cui l’identità viene chiesta come etichetta, Luzai preferisce parlare di radici. Non come genealogia, ma come rete viva di ciò che ci ha fatto diventare ciò che siamo. Viaggi, influenze, fratture. “Non possiamo scappare da noi stessi”, dice in Testa. «Ma possiamo accettarci. Possiamo – come le piante – mettere radici in luoghi che prima non consideravamo fertili. Anche se c’è cemento, anche se fa male».

Il suo è un pop contaminato, radicalmente personale. E se molti lo percepiscono come “troppo”, Luzai non se ne preoccupa. «Non ho mai pensato che la mia musica fosse troppo, ma che potesse non essere compresa da tuttə. L’Italia ha bisogno di aprirsi di più culturalmente e musicalmente. Spesso ciò che non si comprende viene percepito come strano, ma è solo ricchezza incompresa». «Il mio suono è ancora in evoluzione», racconta. «Mi hanno influenzata Arca, Björk, FKA Twigs, Eartheater, Sevdaliza. Ma anche The Prodigy, con quell’approccio fisico e disturbante alla musica. Sto cercando di trovare un equilibrio tra forza e vulnerabilità, tra istinto e consapevolezza. Ma so che la libertà che mi prendo è ciò che rende il mio progetto davvero mio». In un Paese che spesso premia l’omologazione, fare avant-pop diventa un gesto di resistenza. «Sì, è politico. Resistere nel corpo di una donna nera in Italia, è già un atto politico. Raccontare la mia esperienza è una necessità. Continuare a farlo – con il mio corpo, le mie parole, la mia voce – è la mia forma di lotta». E come le piante che crescono da un ramo spezzato, Luzai fiorisce dove può. E dove vuole. Anche lì dove nessuno avrebbe immaginato che fosse possibile.

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