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Con “Getting Killed” i Geese non chiedono di essere capiti

I Geese non devono nulla a nessuno. Assimilano le influenze, le stravolgono e le sputano fuori con forza, senza filtri. Quello che resta è un cortocircuito sonoro, una frattura luminosa, un lampo che squarcia la notte

Se c’è una lezione che David Foster Wallace lascia nel suo monumentale Infinite Jest è che il mondo non finirà per colpa delle droghe, ma per la diffusione capillare di un intrattenimento capace di creare dipendenza e di minare la società. Riletto oggi, Wallace sembra quasi un profeta. Il suo futuro appare sorprendentemente vicino al nostro presente, incarnato dalla cultura del meme, uno streaming costante, frammentato e dispersivo che crea assuefazione e rispecchia perfettamente la sua visione di un intrattenimento letale, capace di catturare morbosamente l’attenzione fino a far crollare ogni forma di riflessione o ragionamento. In questo contesto si muove Cameron Winter, cantante dei Geese, che nel brano omonimo del disco Getting Killed ammette “I’m getting killed by a pretty good life”. È la voce di un’America rassegnata, dal sapore pre-apocalittico, una landa già desolata che aspetta solo eventi ancora più nefasti. Non è un disco che si lascia raccontare facilmente. C’è chi proverà a inserirlo dentro etichette di comodo, a dargli una cornice ordinata, ma l’album sembra respingerle una dopo l’altra.

È un lavoro che si agita, che non offre un centro stabile e che vive di slanci improvvisi, di tensioni che si accendono e si spengono senza preavviso: dieci giorni di registrazione sotto un cielo californiano che brucia, e il risultato è tutto tranne che rassicurante. Il disco si apre con Trinidad. Nelle prime battute si sente Cameron Winter mormorare “I tried, I tried so hard”, un’introduzione fragile che sembra quasi una confessione. Ma dopo una cinquantina di secondi la quiete si infrange e il brano esplode. Le chitarre tagliano come lame, la batteria batte come un tamburo di guerra e Winter urla “There’s a bomb in my car” come se il mondo si stesse davvero frantumando davanti ai suoi occhi. Il brano procede a ondate, alternando calma apparente e deflagrazioni improvvise, e trascina l’ascoltatore nella mente di un folle deciso a farsi saltare in aria insieme a un’America elettrica e autoannientata. Non c’è alcun ingresso graduale, sei già dentro l’incendio, senza guida, circondato da rovine che continuano a tremare. Eppure, questa violenza non è gratuita. I Geese sanno come soffiare sul fuoco e poi spegnerlo all’improvviso, lasciando solo il crepitio. Cobra si muove come un serpente tra le macerie, sinuosa, scivolosa, pronta a darti una tregua che sa di veleno dolce. È la calma prima dell’ennesimo temporale, mai la quiete vera, anche nei momenti più “pacifici” si sente la tensione che pulsa, come un cuore che non sa se fermarsi o impazzire.

Il cuore pulsante del disco è la già citata Getting Killed, un collage di riff storti, cori distorti e parole che sembrano balbettii di un profeta febbricitante. L’ironia del brano non nasconde la lucidità di chi naviga tra l’ordinario mentre il mondo continua a colpire senza tregua, un gioco sottile tra vittima e carnefice. Winter canta come se stesse perdendo sangue dal naso, senza avere tempo di fermarsi, trascinando l’ascoltatore dentro la febbre del suo caos. Poi c’è 100 Horses, un delirio che sembra uscito dalla mente di chi soffre di sindrome da stress post-traumatico. Le parole si accumulano senza tregua, visioni di generali che ti dicono che non sorriderai mai più, ordini che trasformano ogni gesto in un rituale di paura, e cavalli che danzano liberamente su un pavimento che sembra il circo di una guerra senza fine. Il brano cresce in un turbine delirante, un’esplosione di immagini e ritmo che lascia l’ascoltatore disorientato e stordito, come se stesse camminando tra le macerie di una mente in guerra. Il disco, dopo il primo singolo estratto Texas, si chiude con Long Island City Here I Come, una fuga a perdifiato verso nessun luogo, dove la febbre del suono non ti lascia dormire. Nessuna risposta, nessun abbraccio, solo domande che continuano a inseguirti fino al mattino, quando il sole sembra più una minaccia che una promessa. Sul piano sonoro, i Geese sembrano figli di Television, Suicide o The Ex, per citare alcune band del passato, ma anche cugini stretti di Squid e Black Midi, tra post-punk, free jazz, folk e art-rock.

La realtà però è che i Geese non sono figli di nessuno. Prendono a morsi le influenze, le masticano e le restituiscono all’ascoltatore in faccia. Ciò che resta è puro cortocircuito, frattura, lampo nella notte. Qui la linearità è bandita, il caos diventa grammatica, la rottura forma, e ogni traccia è una strada che finisce su uno strapiombo. Le liriche di Winter sono dense come nebbia tossica, criptiche e paradossali, mai “ermetiche” nel senso accademico. Sono semplicemente il modo più sincero per descrivere un mondo che divora i suoi figli e ride mentre lo fa. Non cercano di spiegare, ma di dare corpo all’inquietudine che ci mastica ogni giorno. Fotografie sfocate, urla soffocate, città che si sbriciolano sotto i piedi. Alla fine, Getting Killed non è un disco da comprendere, ma a cui sopravvivere. I Geese non chiedono di essere capiti: invitano a buttarsi nel fuoco con loro, senza paracadute né manuale d’istruzioni. Non ci guidano, ci mostrano il delirio e la follia così come sono, in questa terra sempre meno umana. Non hanno mappe, solo un binocolo puntato sul paradosso che ci circonda, che mette a fuoco il nostro vagare senza senso.