dark mode light mode Search Menu
Search

“Baby 2”, la follia collettiva della Roma pariolina

Parioli un anno dopo. Chiara (Benedetta Porcaroli) e Ludovica (Alice Pagani) inseguono, si inseguono, si fanno inseguire. Una con lo sguardo mesto, l’altra con lo sguardo aggressivo, ma entrambe sofferenti. Come ripetono più volte nel corso delle sei puntate, la loro è una scelta. Ma nonostante ciò, guardando Baby 2, ci chiediamo perché proprio loro, perché proprio adesso, perché così piccole e perché tutto ciò ci succede di fianco o sotto casa, metaforicamente e indipendentemente da dove voi abitiate. Se la prima stagione è il racconto della ricerca di una via di fuga, la seconda esplora le conseguenze delle scelte compiute dai protagonisti, spesso in aperto contrasto con i valori imposti dalla famiglia e dalla società. Soprattutto Chiara e Ludovica sono divise tra la vita da studentesse e la vita notturna, quella che puntata dopo puntata diventa sempre più difficile tenere segreta.

Il senso di disorientamento ha il suo nucleo proprio nel movente dietro la vicenda: la scelta. Siamo noi stessi a volte gli artefici del nostro destino. Poi certo si può parlare di regia, di sceneggiatura (che comunque migliora rispetto alla prima stagione) ma la storia di Chiara e Ludovica contribuisce a farci leggermente distogliere gli occhi dai tanti – a tratti toppi – inciampi di produzione. Uno degli archetti del quartiere Coppedè di Roma è inquadrato più volte, e quello che da occhio esterno può sembrare solo un bellissimo scorcio della città eterna, in realtà sembra essere l’incrocio dove si accende la fiamma, quella della perdizione. Questa perdizione che ci si aspettava di trovare nella prima stagione e che forse ci aveva un po’ deluso, ora la si ritrova in ogni episodio, in ogni festa, in ogni stanza d’albergo, in ogni osservatore indesiderato.

Un ecosistema dove i genitori stessi, primi nemici dei figli, partecipano passivamente all’autodistruzione, senza saperlo, o sapendolo e continuando ad affondare il dito nella piaga. I figli gay scappano dai padri, che quasi li ricattano, mascherando una minaccia come consiglio da genitore, madri single inseguono e indagano sull’operato impudico delle figlie, si chiedono da dove vengano soldi e abiti costosi e quando uno dei figli gay esplode la sua rabbia repressa e inizia anche lui la buia strada del ricatto, ecco che il genitore si tappa gli occhi, ma non di fronte al figlio, ma di fronte allo specchio. Il teen drama di cui siamo spettatori è certo stemperato da interpreti non da Oscar, ma da interpreti che riescono in qualche modo a ritrarre l’ambiente di cui sono protagonisti; un ambiente di adolescenti, dove il liceo sembra l’unico mondo là fuori.

Se Baby non fosse stata una serie ma un documentario con gli attori interpreti di se stessi, probabilmente sarebbe uscito un qualcosa di molto simile alla produzione di Netflix. Come volete che gestisca uno scandalo una ragazza di diciotto anni? Come volete che gestisca un ricatto un ragazzo di diciannove? Male, come ogni tanto ci viene pensato guardando gli episodi. Rovinando il prossimo, ci si aggiusta la vita; sembra questa la morale della serie firmata Grams*, il collettivo di scrittori composto da Antonio Le Fosse, Re Salvador, Eleonora Trucchi, Marco Raspanti e Giacomo Mazzariol. Certo, hanno strada da fare in quanto a fotografia, sequenze e scelta del cast. Ma Baby non è questo; Baby è una finestra che preferiamo lasciare chiusa, perché la sensazione è che se ficchi il naso nel mondo di un diciottenne, ne esci distrutto, anche se di anni ne hai tranta, quaranta o cinquanta. D’altronde i soldi comprano qualsiasi cosa per conto della reputazione, ma la sete di potere, si prende tutto gratis.