C’era una volta, nel lontano 2011, una serie televisiva che sconvolse il pianeta intero. Passata in sordina, soprattutto alle nostre latitudini, è diventata nel giro di pochi mesi un oggetto di culto, soggetto principale di un passaparola sul web anacronistico rispetto ai mezzi di quell’epoca, riuscì a centrare il bersaglio grosso e ad entrare nel pantheon dei migliori prodotti seriali mai pensati. Black Mirror, creatura di Charlie Brooker, che ha scritto quasi tutti (27/28, l’unicum resta The Entire Stor of You del 2011) gli episodi sin dalla prima stagione. Ma cosa ha sempre contraddistinto questa serie, trasmessa inizialmente su Channel 4 e dalla terza stagione su Netflix? Sicuramente l’essere una serie antologica ha il suo fascino. Ogni episodio ha storia a sé, non c’è un ordine in cui guardarli, possiamo sceglierlo noi. Anche il cast vede tra gli interpreti volti che hanno usato la serie come trampolino di lancio per una carriera importante, basti pensare a Daniel Kaluuya (prima che diventasse l’attore feticcio di Jordan Peele), Domhnall Gleeson o Jodie Whittaker. Ma non ci siamo innamorati di Black Mirror per questi motivi, per quanto sicuramente hanno aiutato. Brooker ci ha ammaliati, ci ha ipnotizzati dipingendoci sprazzi di un futuro prossimo caratterizzato dalla distopia e da un pessimismo totale, in cui la tecnologia non è un mezzo che ci aiuta a progredire, ma anzi fa emergere in noi umani gli istinti più bassi e reconditi, facendoci regredire a stadi belluini e ancestrali.
Parlo per me, ma sfido chiunque abbia amato questa serie a non essersi trovato a guardare lo schermo nero (da qui il titolo della serie) con la nausea alla fine di ogni singolo episodio delle prime due stagioni. Non è (o forse è meglio dire era, ma ci arriviamo più avanti) una serie con cui fare bingewatching: sono troppe le implicazioni etiche e troppo spesso preso a ceffoni il senso morale tali da dire basta dopo quaranta minuti, spegnere e riflettere su ciò che abbiamo visto. Bene. La sesta stagione di Black Mirror si compone di cinque episodi abbastanza diversi tra loro, come emerso dai teaser rilasciati in precedenza. La domanda che ci siamo posti tutti, soprattutto dopo la debacle della stagione precedente, è stata: riuscirà quel geniaccio di Brooker a tornare sui fasti iniziali? Oppure il lento declino continuerà inesorabile? Ciò che emerge, sin dal primo episodio, Joan is Awful, è il chiarissimo intento di auto-spernacchiarsi di Brooker. Ci viene mostrata Streamberry, una piattaforma streaming palesemente ispirata alla casa-madre Netflix: dal logo, una S rossa, all’iconico “TU-DUM” iniziale, ormai diventato un trademark per la piattaforma. Le implicazioni negative per la protagonista, che vede trasposta la sua vita privata in una serie schizzata in vetta alle classifiche (con tutte le note negative e gli scheletri nell’armadio che andrebbero tenuti, appunto, nell’armadio), partono dal non aver letto i termini e le condizioni d’uso nel contratto sottoscritto con la piattaforma. Streamberry potrà così utilizzare a suo piacimento la sua vita, portarla sul piccolo schermo, e fare interpretare il ruolo di Joan persino da Salma Hayek, tramite deepfake.
La stessa piattaforma/parodia la troviamo anche nel secondo episodio, Loch Henry, ambientato in Scozia ai giorni nostri (un unicum di questa stagione). Ne vien fuori un episodio spaventoso, con una critica rilevante verso l’umanità che, al giorno d’oggi, non è mai sazia dell’orrore. Ma non quello dei film, bensì quello reale, rappresentato da podcast true crime o serie che scandagliano col setaccio le abitudini più maniacali dei serial killer (un nome a caso, il caso Jeffrey Dahmer, che nei mesi scorsi è stato sulla bocca di tutti. Indovinate chi ha prodotto la serie? Sì, proprio la grande N!). Fregandocene della sensibilità e del dolore che possono avere le famiglie delle vittime, o anche persino dei colpevoli, ma andando sempre a cercare lo scoop, visitando i luoghi dei massacri, cercando di restare sempre aggiornati sugli ultimi risvolti. I restanti tre episodi sono ambientati in passato. Solo il terzo, Beyond the Sea, ha una reale connessione col mondo sci-fi, visto che Aaron Paul e Josh Hartnett sono due astronauti che vivono su una navicella spaziale, a migliaia di chilometri dalla Terra. L’unico legame che li unisce con le famiglie sono degli avatar in cui teleportano la loro coscienza, per restare affianco alle rispettive famiglie e non sentirne troppo la mancanza. La svolta arriverà quando moglie e figli di Hartnett verranno massacrati da una setta in stile Charles Manson. Paul, in un impeto di pietà, “presterà” il suo corpo fittizio anche al collega, mettendo la moglie in una posizione scomoda: chi dei due avrà davanti? Il corpo è il medesimo, ma da chi sarà abitato di volta in volta?
Non sto a tediarvi nemmeno con la descrizione di Mazey Day, che nasce con l’intento nobile di descriverci la cultura oppressiva e invadente dei paparazzi, ma termina con un viaggio totalmente no-sense nel fantasy, impersonato addirittura da un lupo mannaro. E nemmeno mi dilungherò sul finale, Demone 79, che ha rimandi cronenberghiani (The Dead Zone è più di una semplice ispirazione), ma termina in modo talmente stucchevole e melenso che, anche qui, non sappiamo se abbiamo sbagliato serie. Avrete capito da voi che, questa sesta stagione è un clamoroso flop. Non sappiamo se Brooker si sia adattato allo stile più soft e “commerciale” causato dal passaggio su una grande piattaforma streaming. Siamo abbastanza certi che l’aumento di budget, con attori di primissimo piano coinvolti (Aaron Paul o Zazie Beetz per restare sugli ultimi episodi, o Jesse Plemons, Miley Cirus ed Anthony Mackie) non ha aiutato da un punto di vista narrativo. Le prestazioni attoriali restano di primissimo livello, in Beyond the Sea Aaron Paul è nettamente la cosa migliore della sesta stagione. Ma è sotto gli occhi di tutti una carenza di idee, arrivati a dieci anni di distanza dalla prima messa in onda. Inizialmente eravamo sconvolti da quanto la serie potesse predire il futuro, quanto fosse in grado di anticipare risvolti tecnologici e sociali con una precisione sconcertante. Capiamo benissimo che, arrivati nel 2023, predire ciò che accadrà tra altri dieci anni, alla velocità con cui la società e la tecnologia si evolvono, non è semplice. Ma non possiamo accettare che le uniche idee siano ormai inflazionate e trite (la coscienza umana trasportata in un corpo esterno, come visto nel terzo episodio, è ormai un topos narrativo visto spesso).
Inoltre, e per chi vi scrive questo è la nota maggiormente dolente, ci siamo allontanati ed abbiamo totalmente perso di vista l’essenza che ha reso Black Mirror un caso unico nella storia della serialità. I cinque episodi, presi singolarmente, non sono nemmeno malaccio, ma è inaccettabile associarli al marchio Black Mirror. Non c’è attinenza con la tecnologia, non è presente quella vena distopica e nichilista che ci spiazzava e ci lasciava senza speranza alla fine di ogni episodio. In poche parole, non solo la saga ha virato su temi abbastanza distanti, ma lo ha fatto snaturandosi. Non vuole essere il classico discorso del “era meglio prima, io sono fan dal giorno zero” tipicamente riscontrato in ambito musicale, quanto più una triste constatazione di una serie che è diventata prevedibile, scontata e spesso non ti fa nemmeno riflettere su ciò che hai visto. Peccato Charlie, tutti noi confidiamo che tu possa ritrovare quella penna geniale ed unica che ha caratterizzato la serie fino a qualche anno fa. Sperando che Black Mirror torni ad essere quel piccolo gioiello che è stata, e non una delle tante serie qualunque, da guardare in una serata, in un catalogo sterminato.