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Perché prolungare “Sex Education” non è stata una scelta saggia

La genialata iniziale, e cioè quella di raccontare cosa può accadere in un liceo quando una ragazzino (Otis, interpretato da Asa Butterfield) figlio di una sessuologa, decide di aprire una clinica del sesso all’interno della sua scuola ascoltando a pagamento i problemi sessuali di larga parte dei suoi compagni ed elargendo consigli molto azzeccati, ha reso Sex Education una delle serie più interessanti e azzeccate degli ultimi anni. Ma come accade spesso per le serie targate Netflix (ergo: guardare i casi The End of the F***ing World e La casa di carta), quando il brodo viene allungato poi del sapore iniziale rimane ben poco. E così siamo arrivati alla terza stagione in cui i protagonisti sono inevitabilmente cresciuti e si trovano alla soglia dell’età adulta. Hanno ancora chiaramente grossi problemi relazionali con i loro genitori i quali, a loro volta, scontano tutto ciò che hanno di irrisolto con le loro famiglie di origine: una catena infinita di cause ed effetti legati a traumi familiari. Non manca nulla: dai genitori irresponsabili e sconclusionati, alle crisi di identità sessuale, dagli amori non corrisposti, alle avventure di una notte, dalla ribellione di tutta una scuola, alle prime scelte di vita.

Con la terza stagione Laurie Nunn, l’ideatrice della serie, vuole scavare nella psicologia di quasi tutti i protagonisti con il chiaro intento di collegare vissuti ed esperienze passate agli stati d’animo del momento o agli approcci alla vita dei singoli protagonisti al fine di smontare giudizi sommari sulle personalità dei singoli, ma l’interpretazioni di Magistrale Gillian Anderson nel ruolo della psicoterapeuta e la colonna sonora – grazie al recupero di uno strepitoso repertorio che, questa volta, vira su Tender dei Blur e Under Pressure di David Bowie e Queen – sono in realtà gli unici punti di forza di questa terza (e purtroppo non ultima) parte. Insomma, voler forzare le trame (per la serie: show che funziona non si sospende neanche morti) ed allungare le storyline virando completamente da quella che è stata l’ossatura iniziale di trama per andare verso le più classiche e già viste nei teen drama degli ultimi anni (Euphoria, The Kissing Booth, We Are Who We Are) non sempre paga. E in questo caso non ha pagato, purtroppo.