dark mode light mode Search Menu
Search

“Una vita in fuga”: Sean Penn si dirige da solo per raccontare i white trash

Presentato in concorso durante la settantaquattresima edizione del Festival di Cannes, Una vita in fuga è il sesto lungometraggio di Sean Penn e il primo in cui il divo recita nel ruolo principale. Tratto da libro di memorie Flim-Flam Man: The True Story Of My Father’s Counterfeit Life della giornalista Jennifer Vogel, è la storia del rapporto decennale tra il falsario Jonn Vogel e la stessa Jennifer (Dylan Penn, figlia del regista). La relazione tra la ragazza e il padre, caratterizzata dal conflitto dovuto all’irresponsabilità e all’attività criminale dell’uomo ma anche da un profondo amore tra i due, è il centro indiscusso della pellicola e vive della compenetrazione fra la finzione della messa in scena, la matrice autobiografica del racconto e la realtà del legame tra Penn e la figlia, legame che si intuisce essere ciò che ha spinto il cineasta a trasporre sul grande schermo la storia della giornalista. Il personaggio di Dylan Penn, nonostante si distacchi nel corso della pellicola dalle manipolazioni emotive del genitore, vive l’infanzia e la giovinezza nell’adorazione della figura paterna, che, com’è ripetutamente sottolineato dalla narrazione, ama visceralmente anche dopo aver scoperto della sua doppia vita.

Il primo e principale limite del film è dunque l’autoreferenzialità di Penn, che neanche troppo in filigrana mette in scena il profondissimo rapporto che lo lega alla figlia, lasciando sullo sfondo il reale interesse che avrebbe potuto suscitare il racconto del narcisismo distruttivo di un padre di famiglia e della difficile condizione di parte della popolazione statunitense. John Vogel e la sua famiglia sono un esempio di quella che negli Stati Uniti è definita “white trash”, ovvero quella fascia di popolazione bianca che, soprattutto nelle regioni meridionali, vive in condizioni di povertà e precarietà. L’etnia caucasica della famiglia Vogel è un dato fondamentale per la comprensione del problema sociale narrato: nato nel giorno del Flag Day (da cui il titolo originale del film, per l’appunto Flag Day), Vogel identifica il suo compleanno con quello della nazione e, come affermato da Jennifer nel film, per questo suo “diritto di nascita” vive con la convinzione che la ricchezza, il benessere e il successo che la retorica a stelle e strisce assicura ai bianchi gli siano dovuti. Il conflitto razziale non è direttamente messo in scena, ma nella parte iniziale del film la madre di Vogel afferma che John, quando gli conviene – ovvero quando si vede rubare propri “diritti” – se la prende con le persone di etnia diversa.

Conoscendo le posizioni politiche di Sean Penn, è semplice capire che il suo obiettivo era criticare proprio questo tipo di retorica americana, motore della frustrazione delle frange più marginali di popolazione bianca che hanno contribuito in modo decisivo alla vittoria elettorale di Trump: questo proposito, che ha il merito di portare in scena uno scenario statunitense quasi sempre ignorato dal cinema, è potenzialmente interessantissimo, ma rimane un mero proposito. La forte retorica familiare alla base del film, la cui primaria ragione d’essere è un affetto privato di Penn e non un’urgenza politica, finisce per far cadere nel denigrato sentimentalismo a stelle e strisce anche quegli elementi tipicamente statunitensi, come la ricorrente figura del cowboy, che il regista si propone di problematizzare. Il risultato è un film che presenta degli aspetti degni di nota, come la scelta della pellicola 16 mm e la colonna sonora in parte composta da Eddie Vedder, ma che sprofonda in un americanismo dilagante e a tratti ridicolo.