dark mode light mode Search Menu
Search

“Nope” di Jordan Peele è molto più di un ibrido tra western e fantascienza

Nope è l’ultimo, attesissimo film di Jordan Peele. Nel 2017, dopo una lunga carriera come autore e attore di sketch comici, Peele esordisce al cinema con Scappa – Get Out, instant cult che gli assicura un premio Oscar per la Miglior sceneggiatura originale – si tratta della prima statuetta della categoria vinta da un afroamericano – e l’ingresso immediato nel pantheon dei giovani autori più promettenti di Hollywood. Get Out, pamphlet sull’ipocrisia della borghesia bianca travestito da esilarante commedia horror, è seguito nel 2019 da Us, più criptico ma ugualmente caratterizzato dalla commistione satirica di intrattenimento e critica sociale: Peele, al secondo film, dimostra quindi di avere già la lucidità, l’originalità e la riconoscibilità di un autore affermato. In Nope, i suoi tratti distintivi – ironia graffiante, analisi satirica della discriminazione razziale, utilizzo critico dei codici dell’horror e della commedia – si uniscono alla riflessione su un mondo che Peele conosce molto bene, il mondo dello spettacolo. «Ti getterò addosso una lordura abominevole, ti renderò vile e ti renderò uno spettacolo»: la citazione biblica che apre Nope è anche la più coerente chiave di lettura del film, ambientato in un ranch dall’atmosfera western di proprietà dei fratelli Emerald “Em” e Otis Junior “OJ” Haywood, interpretati da Keke Palmer e da Daniel Kaluuya – stoicamente alle prese con i pregiudizi che il nome del celebre Simpson può suscitare nei bianchi.

I due fratelli, che in seguito alla misteriosa morte del padre si occupano di addestrare cavalli per film e spot pubblicitari, sono i discendenti del protagonista di The Horse in Motion, una serie di fotografie, scattate dal bianco Eadweard Muybridge a un dimenticato fantino nero, che costituiscono uno dei primi esperimenti cinematografici della storia. Gli affari al ranch vanno male, al punto che OJ è costretto a vendere sempre più cavalli al vicino Jupe (Steven Yeun), proprietario di un parco giochi a tema western: quando una misteriosa creatura aliena inizia a dare la caccia ai cavalli della zona, i due fratelli decidono di impegnarsi per immortalarla, con l’obiettivo di arricchirsi vendendo le immagini dell’UFO. In parallelo alla trama principale, è narrato in flashback il trauma vissuto da Jupe, attore bambino di una trasmissione comica tristemente celebre perché, nel corso delle riprese di un episodio, la scimmia addomesticata Gordy, star del programma, impazzì e trucidò diversi membri della troupe. A un occhio poco attento, Nope sembra semplicemente un bizzarro ibrido tra un western e un film di fantascienza, narrato con i toni della commedia e la tensione dell’horror: la forza del cinema di Peele, uno dei pochi registi contemporanei a mettere d’accordo critica e box office, è proprio la capacità di veicolare riflessioni complesse sulla contemporaneità tramite opere autenticamente divertenti, in grado di intrattenere anche un pubblico non interessato alla tesi di fondo sostenuta dal regista. Nel caso di Nope, la tesi di Peele è che lo sguardo non è mai neutro, ma è un’azione che stabilisce un rapporto di potere tra il soggetto (chi guarda) e l’oggetto (chi è guardato): lo spettacolo, di conseguenza, è una forma di violenza.

Gordy, animale addomesticato in funzione dell’intrattenimento televisivo, è il sanguinoso esempio dell’esasperazione di tale violenza, che esplode nel momento in cui l’oggetto si ribella al soggetto che lo sottomette. La parabola del fantino fotografato da Muybridge riporta la riflessione al tema, caro a Peele, delle dinamiche razziali: l’immagine in movimento, antenata sia del cinema sia della televisione, nasce dall’appropriazione da parte di un bianco dello sforzo fisico di un nero. In una contemporaneità ossessionata dalla fama, la corrispondenza tra sguardo e potere è talmente pervasiva da arrivare al paradosso dell’individuo che muore pur di immortalare – cioè dominare, o meglio domare – l’immagine che può assicurare lo spettacolo, e quindi il potere. Gli stessi fratelli, artefici ma anche vittime del potere dello sguardo, nel momento in cui scoprono l’alieno arrivano alla logica conclusione di rovesciare la propria sorte rendendo il prodigio oggetto dello spettacolo di massa. L’opera di Peele, tanto complessa quanto coerente, consiste in un’analisi feroce e folgorante dell’attuale consumo di immagini, rivestita da un apparato estetico di altissimo livello, ad oggi il più ambizioso del regista. Ad impreziosire il film, senza dubbio uno dei più interessanti dell’anno, sono state inserite numerose citazioni che faranno la gioia dei cinefili, tra cui una, poco evidente, al cinema di Sergio Leone: il nome del ranch dei fratelli Haywood, “Agua Dulce”, è infatti la traduzione di “Sweetwater”, la località in cui è ambientato C’era una volta il West.