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“Dahmer”: nella mente del serial killer, con un Evan Peters da Emmy

Ovunque ci sia il nome di Ryan Murphy si può essere certi di sentire il tintinnio dei soldi risuonare in lontananza. Il regista americano ha ormai all’attivo film e soprattutto serie tv di successo grazie alle quali è ormai considerato un vero e proprio showrunner degno di questo nome. E con la nuova serie in esclusiva per Netlfix – s’intitola DahmerMurphy non fa che confermare le aspettative che da tempo sono in lui riposte. Attinge infatti a piene mani dai suoi prodotti seriali più famosi: da American Crime Story, per raccontare la storia di uno dei serial killer più famosi della storia, Jeffrey Dahmer appunto, conosciuto anche come il cannibale di Milwaukee; da Pose per parlare dello stile di vita e dei club omosessuali degli anni Novanta; da American Horror Story, infine, per narrare un indicibile orrore che si è fatto uomo nella persona di Dahmer, impersonato da un volto noto proprio di American Horror Story, un Evan Peters fresco di Emmy Award. Potremmo benissimo essere in odore di doppietta: Peters interpreta infatti magistralmente Jeffrey Dahmer, in ogni suo aspetto psicotico, sadico e socialmente inadeguato.

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La sua interpretazione è capace di virare in continuazione da un’asettica indifferenza verso i fatti commessi, a un coinvolgimento emotivo fortemente appassionato mentre si diletta con i resti delle vittime. Perché Jeffrey Dahmer, oltre che un assassino, era ovviamente un uomo; ed Evan Peters riesce a focalizzarsi tantissimo, oltre che sull’aspetto omicidiario, sull’essere umano in tutti i suoi aspetti più vulnerabili. Fa accapponare la pelle ammetterlo, ma a volte durante la visione ci si trova a provare una lieve compassione ed empatia per quello che è a tutti gli effetti uno dei carnefici più spietati degli ultimi anni. Ed è proprio questo, probabilmente, il più grande problema di questa serie: per un uomo come Jeffrey Dahmer, che ha stuprato, drogato, ucciso, squartato, copulato e infine mangiato le sue diciassette vittime non si può provare compassione. Eppure Evan Peters lo rende possibile grazie al suo straordinario talento recitativo – e, non neghiamolo, anche grazie alla sua avvenenza, per cui la figura del vero assassino sta pericolosamente venendo riabilitata e venerata da diversi utenti social più o meno giovani. A farne le spese, come in tutte le storie dell’orrore che si rispettino, sono ovviamente le vittime e le loro famiglie, che si sono totalmente dissociate dalla produzione di Mostro.

Eppure è impossibile non apprezzare la sottile denuncia che Ryan Murphy muove nei confronti dell’ipocrita società americana. La macchina da presa infatti, concentrandosi sull’intera vita di Jeffrey Dahmer, non può esimersi dal mostrare che il killer agì indisturbato per tredici anni poiché protetto dal forte razzismo imperante tra gli anni Settanta e Novanta negli Stati Uniti. Jeffrey Dahmer, infatti, bello, biondo e soprattutto bianco, nonostante alcune peculiarità della propria personalità e del proprio modo di vivere non indifferenti, per lungo tempo non venne mai considerato un sospettato proprio grazie al colore della sua pelle. Ed ecco perché le sue vittime furono quasi tutte nere e latine: il killer, spietatamente lucido, sapeva benissimo che sarebbero stati cadaveri di serie B, e che nessuno avrebbe cercato di scoprire la verità attorno alla loro misteriosa sparizione. Nel silenzio delle autorità quindi si alzano forti le voci delle famiglie dei ragazzi uccisi da Dahmer, e Ryan Murphy e il team di registi che dirigono gli episodi (tra cui figura anche Jennifer Lynch, figlia di David) alternano su uno stesso piano due stili di regia comunicativi e narrativi totalmente opposti, non solo sul piano scontatamente cromatico.

Se le scene riguardanti Dahmer sono spesso e volentieri quasi cliniche, da quanto rappresentano in maniera meticolosa e chirurgica la lucida follia del killer, dall’altra quelle in cui rivivono le brevi vite spezzate delle vittime restituiscono allo spettatore una calda sensazione di nostalgica amarezza, poiché avvolte dall’abbraccio dell’amore, della giovinezza e della speranza. Sensazioni ed emozioni che a Jeffrey Dahmer furono totalmente negate. Due rette parallele che corrono vicine alla stessa velocità per tutti e dieci gli episodi della serie, e che inevitabilmente si trovano a incontrarsi all’infinito – o, nel caso di Mostro, alla fine: come un uroboro, il cerchio tracciato dal killer finalmente si chiude, mescolando la giustizia divina con quella dell’uomo, lasciando però la consapevolezza che le cose, per tutti i personaggi coinvolti, sarebbero dovute andare diversamente. “Non resta soltanto che qualche svogliata carezza, e un po’ di tenerezza”, cantava qualcuno…