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“The Bear”, ovvero Jeremy Allen White alle prese con i suoi demoni interiori

La nuova serie di Christopher Storer è un vortice di buste paga, tasse, ispezioni sanitarie, debiti, scartoffie burocratiche, igiene e pavimenti sporchi per raccontare il dramma della perdita.

Un orso, ruggente e palesemente irascibile apre la prima puntata di The Bear la nuova serie di Christopher Storer (Ramy). Da questo inizio in medias res, subito percepiamo che la presenza di tale animale è onirica, un vero e proprio sogno, dal quale si risveglia affannosamente Carmen Berzatto – Jeremy Allen White, Phillip Gallagher di Shameless – giovane chef alle prese con una tavola calda nella periferia di Chicago della quale eredita la gestione dopo la morte del fratello Michael. Grazie a iniziali numerosi flashback ci si rende conto della forte dicotomia che esiste tra l’ambiente nel quale Carmy ha lavorato precedentemente e il ristorante fardello che durante la serie deve cercare di gestire: il primo, un luogo asettico, puro, incontaminato, pervaso da luci bianche e la cui precisione si riesce a notare dalla posizione simmetrica della brigata che ci lavora durante una veloce carrellata che termina con un duraturo close-up sul volto del protagonista dallo sguardo chino, il quale sembra resistere di fronte alle numerose vessazioni ricevute dal suo superiore. A suon di «Sì, Chef», il giovane ragazzo sembra essersi fatto strada, ha appreso i segreti del mestiere e di tutto quanto concerne l’organizzazione che, necessariamente, deve gravitare intorno all’arte della cucina per riuscire a portare a termine un buon servizio.

Tutto ciò cambia completamente all’arrivo al The Beef, una bettola sporca, angusta, dal sapore tossico. Niente sembra mai essere al posto giusto, pare quasi di percepirne l’odore e se ci chiedessero di doverlo classificare, non sarebbe sicuramente più di una C, ovvero una pessima condizione di pulizia, attribuita, infatti, al locale successivamente ad un controllo igienico. Sicuramente una visione frenetica, impossibile fruirla tutta d’un fiato, al contrario, necessita appunto di una vera e propria degustazione. «Sembra proprio che da un momento all’altro tutto questo crollerà», afferma il regista paragonando l’ideazione di The Bear alla convulsa e apparentemente impossibile gestione del locale. Insomma, una vera vita da ristorante trasportata sul piccolo schermo, dove il cibo è comunque sempre al primo posto, è il vero filo rosso che lega spesso le vicende, le conversazioni e i litigi tra i personaggi: l’arrogante cugino Richard, la volenterosa e determinata Sydney Adamu che cerca di prendere in mano la decadente situazione, Marcus ossessivamente alle prese con l’impasto per ciambelle e il resto dello staff. Non a caso in ogni scena è presente qualcuno che taglia, sminuzza, pulisce, mescola, grattugia scorze di arancia, assaggia pietanze, le quali sono l’ago della bilancia che determina l’andamento del precario umore di tutti quanti. «Soffro, sto migliorando, ma ho un’ansia terribile e ho sempre paura», dice Storer. «Ma questo è solo un normale martedì per Carmy».

La mancanza di tempo, dettata da numerose inquadrature sul semplice orologio appeso sopra gli scaffali e l’ansia sono all’ordine del giorno, niente si aggiusta mai definitivamente, ma la lettura introspettiva dei personaggi offre una chiara visione su quali potrebbero essere le soluzioni, spinge il fruitore a traslare le vicende, compararsi ed acquisire una calma (forse apparente?) come quella di Carmy e lo invita a prendere di petto anche le circostanze più scoraggianti se è per raggiungere ciò che si desidera. Inoltre, i lunghi piani sequenza che ruotano in modo centripeto all’interno della piccola cucina riescono ad immergere lo spettatore in un vero frullatore di rumore e urla, tanto che spesso è possibile dover abbassare il volume, dal quale però è impossibile distogliersi; un vortice di buste paga, tasse, ispezioni sanitarie, debiti, scartoffie burocratiche, igiene, impianto idraulico, lavaggio delle stoviglie e pavimenti sporchi. Sì, ma cosa c’entra il titolo allora? Non è facile immaginarselo e viene scontato chiederselo. Potrebbe essere un monito a riflettere, un metodo per affrontare drammi quali l’alcolismo, il lutto, il disagio psicologico, il dialogo umano con persone con reazioni diverse dalle nostre. Tutto sublimato in otto brevi puntate che ruotano intorno ad un caos apparentemente ordinato nella mente di Carmy che esorta a farsi sentire, uscire da quella gabbia di ferro, proprio come l’orso che ci appare dei primi minuti di The Bear.