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Phoenix: «Eravamo convinti che l’industria musicale ci avrebbe distrutto»

Sopravvissuti alle dinamiche dell’industria musicale, ai suoi diktat e ai suoi compromessi: i Phoenix si raccontano.

Secondo il principio di Le Châtelier, ogni sistema tende a reagire ad una modifica impostagli dall’esterno diminuendone gli effetti. Se tale equilibrio viene perturbato, questo si sposterà verso prodotti o reagenti in modo tale da opporsi al cambiamento e ripristinare delle nuove condizioni di equilibrio. Associare la termodinamica ai Phoenix può sembrare un curioso paradosso; in realtà calza a pennello con la band francese. Con ventitré anni di carriera alle spalle e sei album in studio pubblicati, Thomas Mars, Deck D’Arcy, Laurent Brancowitz e Christian Mazzalai stanno per tornare con la loro nuova creatura, Alpha Zulu. Prodotto dalla stessa band e registrato interamente al Musée des Arts Décoratifs di Parigi, Alpha Zulu è il grido necessario della band dopo due anni di pandemia. Il pop-rock accattivante e disinvolto, che da sempre contraddistingue il sound del gruppo di Versailles, incontra il classicismo e il rigore delle stanze che lo hanno generato. Le schitarrate funk e l’elettronica si mescolano a riflessioni personali sul presente, trasportandoci in un viaggio lungo pressappoco trentatré minuti e lanciando un messaggio in codice pieno d’urgenza. Lo stile inconfondibile dei Phoenix è rimasto immutato, così come il loro status di band capace di lasciare la propria impronta nella cultura pop senza dover rispondere necessariamente alle mode del momento. Tutto è organico, naturale, spontaneo, ma soprattutto è il frutto di un chiaro percorso intrapreso dal quartetto nell’arco di questi ultimi due anni. «Abbiamo trovato un bello studio a Parigi, è stato il primo step di un lungo percorso che ha portato alla nascita del nostro nuovo album», mi raccontano.

«Per ogni progetto, cerchiamo di individuare sempre una location speciale e questa volta l’abbiamo trovata nel Louvre – continua Laurent “Branco” Brancowitz – Quando è scoppiata la pandemia, tutto è diventato più complicato. Thomas era bloccato negli Stati Uniti, ma una volta tornato a Parigi ci siamo riuniti anche con Deck e Christian e le canzoni sono nate tutte spontaneamente. Alpha Zulu – che sarà presentato dal vivo a metà novembre all’Alcatraz di Milano – è sicuramente il risultato della combinazione di questi due elementi: la pandemia e il nostro studio di registrazione». Non capita tutti i giorni di poter registrare il proprio disco in uno dei luoghi più rappresentativi della cultura francese, dove viene costantemente valorizzata e riconosciuta l’importanza del bello e dell’espressione artistica. «Lavoravamo tutti i giorni in una piccola stanza bianca con una vista molto bella sui Jardin des Tuileries, è stato molto poetico. Spero che traspaia tutta la naturalezza con cui è nato questo disco. Focalizzarci sulla musica è stata una benedizione». L’isolamento ha certamente contribuito a rafforzare e velocizzare il processo creativo di Alpha Zulu. Molte delle canzoni che lo compongono sono nate nell’arco di dieci giorni. Quando gli chiedo se il disco sia stato guidato principalmente dall’istinto, oltre che dalla naturalezza, non esitano nel confermare la mia impressione. «Abbiamo scritto tanto e in pochissimo tempo, l’ispirazione è stata fortissima, specialmente se si pensa al fatto che Thomas è stato lontano dalla Francia per dieci mesi, non era mai successo prima di quel momento».

Un’altra fortissima influenza nella produzione del disco è stata senza alcun dubbio la presenza spirituale di Philippe Zdar, lo storico produttore della band venuto a mancare nel 2019. «Con lui abbiamo lavorato a tutti i nostri primi dischi. Ha lasciato un vuoto immenso, ma allo stesso tempo la sua personalità era così forte che anche se oggi non c’è più, è come se non se ne fosse mai veramente andato. Abbiamo avvertito la sua presenza ancora una volta durante la stesura di questo progetto, è strano da spiegare». In Winter Solstice, l’unica canzone del disco che non è stata composta in studio e che suona all’orecchio dell’ascoltatore come un vero e proprio flusso di coscienza, riecheggia la frase “Now it’s hard to connect”. Costruire un legame con chi ci circonda sembra essere diventato profondamente difficile, così come lo è trovare una narrativa che ci permetta di superare e convivere con un presente segnato dalla crisi climatica, dalla guerra, dall’inflazione e dai devastanti effetti psicologici della pandemia. «È stata scritta proprio quando eravamo nell’occhio del ciclone: io mi trovavo a Parigi, mentre Thomas era in California durante il periodo dei grandi incendi che l’hanno devastata – dice Laurent – Sembrava davvero l’apocalisse». Altrettanto insolita è l’artwork di Alpha Zulu, il dettaglio di uno dei quadri più famosi di Botticelli, la Madonna col Bambino. Il libro di preghiere che i quattro angeli tengono tra le mani è stato rimosso per lasciare spazio a qualcosa di ben più misterioso. «Stavamo cercando degli elementi specifici per la copertina dell’album, quando siamo incappati in questo dipinto così miracoloso nella sua bellezza che non abbiamo potuto fare a meno di utilizzarlo. L’unico intervento da parte nostra è stato rimuovere il libro e trasformarlo in un oggetto misterioso. Un po’ come il monolite di Odissea nello spazio».

C’è un verso in particolare che fa da apripista all’intero del disco, “Take a moment to decide to compromise”. Una dichiarazione d’intenti che racconta tanto del percorso ventennale dei Phoenix. Mi domando se nella loro professione ci siano state più decisioni o compromessi. «Decisioni – conferma Laurent, ridendo – Buona parte delle nostre energie viene utilizzata per cercare di non scendere a compromessi, per quanto sia possibile. Quando abbiamo iniziato a suonare eravamo convinti che l’industria musicale in un modo o nell’altro ci avrebbe distrutto, ci sentivamo un po’ come se fossimo i Phoenix vs il mondo. Siamo riusciti a mantenere la nostra indipendenza e abbiamo scalato questa grande piramide step by step». Dopo aver vinto un Grammy Award per Wolfgang Amadeus Phoenix, il plauso della critica e dopo aver ricoperto il ruolo di headliners di una lunga serie di festival di spicco – dal Coachella ad Austin City Limits, passando per il Primavera Sound e il Governors Ball – spiegano che a distanza di ventidue anni dal loro debutto con United «l’amore per la musica sia una bellissima costante con un grande fondo di verità». «Perdere l’emozione per il proprio mestiere, significa perdere veramente tutto – continuano a spiegare – per questo è molto importante vivere questi momenti come se fosse la prima volta. Quando scriviamo musica, ricerchiamo costantemente questa emozione, o meglio, senza sapere cosa stia succedendo».

«La strategia che adottiamo di norma è scrivere insieme nella stessa stanza, aspettando il momento in cui finiamo per perdere il controllo e che all’improvviso succeda qualcosa che non avremmo mai potuto prevedere. Non so se questo modus operando si possa applicare anche in altre dimensioni della nostra vita. Forse sul palco, anche perché ogni volta è come essere degli equilibristi in bilico sul filo. C’è sempre questa possibilità di cadere. Spesso ci chiedono se sia fastidioso cantare gli stessi pezzi. È come un prete che dice sempre le stesse formule, ma sente che ogni volta sia tutto diverso. Il rituale è lo stesso, ma non sembra una ripetizione. Fare musica equivale a ritrovarsi nel puro presente. Nicholas (Godin ndr.) degli AIR, ci aveva raccontato come fosse quasi riuscito a dimenticarsi della perdita del padre grazie al rifugio che la musica aveva saputo offrirgli. In quei momenti, per lui suonare significava entrare in un’altra dimensione e credo sia questa la vera magia della musica». Si prendono una pausa. «Ti separa dal passato e dal futuro, ti fa rimanere nel presente».  


Foto di Shervin Lainez
Digital Cover Story di Simone Mancini/Jadeite Studio
Coordinamento redazione: Emanuele Camilli
Ufficio stampa Phoenix: Astarte Agency/Camilla Caldarola