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“La zona d’interesse” non è un film facile da guardare

Jonathan Glazer racconta l’orrore dell’Olocausto come nessuno l’aveva mai fatto prima, aderendo a un’etica dello sguardo che, nella contemporaneità, è sempre più raro riscontrare

La zona d’interesse è il quarto lungometraggio di Jonathan Glazer, regista britannico che, prima di esordire al cinema con la black comedy Sexy Beast, era già attivo nel mondo della pubblicità e del videoclip. Dopo il debutto, avvenuto nel 2000, Glazer ha diretto Birth – Io sono Sean, perturbante thriller con Nicole Kidman, e il magnetico Under the Skin, uscito nel 2013. Dieci anni dopo, Glazer torna dietro la macchina da presa per adattare l’omonimo romanzo di Martin Amis, a sua volta ispirato alla reale figura di Rudolf Höss. Comandante di Auschwitz, oltre che uno dei principali architetti della “soluzione finale”, Höss abita insieme alla famiglia proprio a ridosso del campo di concentramento, in un’area nota appunto come “zona d’interesse”. Glazer riprende l’abitazione degli Höss, una villetta bianca immersa in un lussuoso giardino, con dieci camere gestite da remoto, servendosi di un metodo molto usato in televisione e in particolare nei reality.

La messa a fuoco nitida, l’assenza di primi piani, i toni chiari degli ambienti e la bellezza dei fiori contribuiscono a rendere immacolata l’atmosfera che circonda i biondissimi Höss: l’unica nota stonata del quadro, il muro che li separa da Auschwitz. Osservati da lontano nel banale svolgersi della loro quotidianità, gli Höss, tanto spensierati quanto grotteschi, gelano il sangue dello spettatore proprio per la straordinaria tranquillità con cui riescono ad ignorare quel muro, che nasconde al loro sguardo tutto l’orrore di Auschwitz. Com’è stato possibile, ci chiediamo oggi, che così tante persone abbiano assistito all’Olocausto senza alcun rimorso di coscienza? Con La zona d’interesse, mostrando una situazione statica dilatata fino all’insostenibilità, Glazer risponde a questa domanda, chiamando in causa il passato e, con un folgorante salto temporale, anche il presente. La situazione degli Höss porta alla massima esasperazione un paradosso che anche noi, spettatori contemporanei, sperimentiamo: i massacri, le guerre e gli orrori di oggi scorrono infatti sui nostri schermi insieme ai contenuti più svariati, scivolando nell’ormai infinito novero di ciò che siamo abituati a vedere.

Glazer, nel suo film, sceglie al contrario di non mostrare mai l’interno di Auschwitz, aderendo a un’etica dello sguardo che, nella contemporaneità, è sempre più raro riscontrare. Nonostante non si veda mai, l’interno del campo riempie l’atmosfera del film fino a renderla irrespirabile, andando a contaminare l’agghiacciante normalità degli Höss con il fumo dei forni e con le urla dei prigionieri. L’inibizione della vista, nel film di Glazer, accresce l’importanza del tappeto sonoro: le musiche (composte da Mica Levi) e i rumori, soprattutto quelli provenienti dal campo, vanno a compromettere l’apparenza idilliaca delle immagini, contrastandole e completandone quindi il senso. Candidato agli Oscar in ben cinque categorie (Miglior film, Miglior regia, Miglior sceneggiatura non originale, Miglior film internazionale e Miglior sonoro), La zona d’interesse è sicuramente uno dei film più spiazzanti e innovativi dell’anno, se non addirittura del decennio.