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“Parthenope” di Paolo Sorrentino ti costringe a guardarti dentro

“Parthenope” non richiede di essere spogliato di senso e non ha significati nascosti: è così, e basta. Ma soprattutto, non è un film di Paolo Sorrentino, è il film di ognuno di noi

Era già tutto previsto. Anche che l’ultimo film di Paolo Sorrentino, Parthenope, non fosse un film per tutti. Esclusi gli immobili, i pignoli, i razionali, i parresiasti e cercatori di tesoro, rimangono solo i tanto denigrati mediocri sognatori. Il racconto è la storia della vita di Parthenope, la protagonista interpretata da Celeste Dalla Porta, nata nel 1950 nelle calde acque del golfo. L’aria è tersa e il paziente uso della fotografia rende palpabile la tenerezza della luce, calda sui giovani corpi che vivono nella casa di fronte al mare di Posillipo: Raimondo il fratello maggiore, Sandrino, figlio della governante della famiglia Di Sangro e lei, Parthenope, fanciulla nel fiore degli anni, in netto contrasto con l’altra figura di spicco, sua omonima, l’anziana città di Napoli che abbraccia mansueta lo scorrere degli avvenimenti. La bellezza qui non è perduta, in contrasto con quello che vediamo in Youth. È viva, presente, palpabile. Divenuta una ventenne intelligente, scaltra e sfacciata, decide di studiare antropologia, anche se non saprà mai che cosa sia, nessuno sembra saperlo, neanche il suo professore Devoto Marotta interpretato magistralmente da Silvio Orlando.

Sirena per antonomasia chi le sta intorno rimane affascinato dall’aura che emana la sua giovinezza. Anche suo fratello Raimondo, innamorato incestuosamente di lei fin da quando era in pancia della madre, la protegge, per gioco le soffia addosso, come a mostrarle la sua presenza, come a dirle “io sono qua”. Bellezza, estate, sabbia, balli e feste. Un vortice di emozioni, uno straziante nodo in gola la sequenza del ballo dei tre con le parole di Cocciante le quali descrivono a pennello “che era già tutto previsto, anche l’uomo che sceglievi, il sorriso che gli fai, mentre ti sta portando via” e infatti, baci, carezze, dita che si sfiorano, close up sulla profondità degli sguardi, e poi l’amore, si l’amore ma non con suo fratello. Lui, Raimondo, si siede. Barcollante. Si appoggia sulla balconata. Accende una sigaretta. Dolore. Si percepisce il dolore, nei suoi movimenti, nel suo sguardo, vediamo colorirsi le rime degli occhi come chi sta per piangere ma è ormai troppo scontato farlo. Si lascia andare. E così anche Parthenope si lascia andare. Da questo momento in poi guardiamo una pellicola che scorre come la vita di tutti noi, cercando una strada che possa essere la nostra, seguendo venti, odori, consigli e parole.

Prova anche a fare l’attrice ed è qua che si consuma uno dei monologhi più toccanti del film, quello che, una famosa diva locale ma emigrata altrove, fa sulla sua Napoli. Sprezzante, offensivo, ma suo malgrado sentito. Napoli la ami o la odi, anche se è la tua città. Ma perché? Forse la risposta è da cercare nell’antropologia? Non so se è la solitudine, il senso di colpa o la tristezza che adesso permeano la pellicola, tuttavia intrisa anche di una fievole felicità e sfrontatezza, qualcosa che parla alla stomaco di tutti. Un complesso equilibrio imperfetto. Ma perché no? La bellezza sta nell’imperfezione e sta anche nell’infelicita, come afferma Sorrentino citando Baudelaire. La protagonista cerca la sua strada, scopre di avere una bellezza da attrice, ma che non è abbastanza; si concede solo a chi sa che non la potrà mai amare, basti pensare allo scrittore John Cheever, oppure al vescovo custode del sangue di San Gennaro. Poi si laurea, poi diventa assistente del professore e conosce la disabilità di suo figlio, decide anche di abortire un concepimento dall’ennesima persona che non avrebbe potuto capirla, e poi lascia Napoli per Trento. Anche questo era già tutto previsto. La pellicola, mostra tutto, ma non trapela nemmeno un trascurabile alito di giudizio.

La proiezione scorre e basta, senza giudicare sprezzantemente la debolezza della gente; siamo noi a doverci chiedere “a cosa stiamo pensando”. Per quanto possa sembrare il contrario, Parthenope non richiede di essere spogliato di senso; non ha significati nascosti. È così e basta. Le sue apparenti assurdità sono da apprezzare con gli occhi sinceri di un bambino. È per chi si lascia andare alle proprie profondità. Partendo da questo concetto, Parthenope non è un film di Sorrentino, è il film di ognuno di noi, un viaggio nell’intimo di chi guarda e un invito a scoprire la propria verità. Non esiste una certezza se non quella che ciascuno di noi crea, poiché comprendiamo e conosciamo solo quello che ci è noto, infatti “vedere è l’ultima cosa che si impara nella vita”, esorta infine la protagonista, tornata a Napoli dopo quaranta anni. È il 2023 il Napoli ha vinto lo scudetto, e lei ancora non sa a cosa sta pensando e nemmeno cosa sia l’antropologia. Ebbene, pare di aver assistito (come il piccolo Totò di Tornatore in Nuovo cinema Paradiso nella famosa sequenza finale dei baci) alle scene della mia vita che non volevo più guardare e nemmeno più dire.