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Primavera Sound 2025: cambiare per rimanere se stessi

Tra popstar globali, punk da cameretta, techno estrema e messaggi politici forti, il Primavera Sound 2025 conferma la sua formula: cambiare tutto per restare se stesso. E anche quest’anno ha vinto

«Ok ragazzi, io vado a vedere gli High Vis.»
«Ma come, gli High Vis? Ci sono le Wet Leg!»
Il telefono vibra: arriva un messaggio sul gruppo.
«Ragazzi, io sono sotto al palco degli ANOTR, chi viene?»

Ecco, il Primavera Sound è così: un gigantesco parco giochi musicale, traboccante di attrattive sonore per ogni gusto. C’è posto per chi ci è finito quasi per caso, trascinato da un amico, per i fan sfegatati del pop contemporaneo, del rock alternativo, dell’ormai decennale revival post-punk e per i cacciatori delle più improbabili propaggini musicali. Nessuno rimane senza qualcosa da ascoltare o da inseguire.  Che tu sia un veterano (come il sottoscritto, al suo nono Primavera Sound) o un novizio, poco importa: la luce negli occhi brilla sempre allo stesso modo, mentre riflette i colori e le sfumature dei palchi e dei fari. Lo sguardo si perde verso artisti che sognavi di vedere da tempo o che non vedevi l’ora di rivedere per la quarta, quinta, sesta volta.

Il Primavera, però, non è solo pura emozione: dietro ogni istante vissuto sotto un palco c’è una macchina complessa, un’intuizione organizzativa precisa, una direzione artistica coraggiosa e mai banale. E i numeri dell’edizione 2025 parlano chiaro: 293.000 presenze e ogni record polverizzato. Il Primavera Sound ha vinto la sua scommessa puntando su tre popstar di livello internazionale, ma chi pensa che il festival abbia perso la sua natura non potrebbe essere più lontano dalla verità. Basta guardare quella scritta, in bianco su nero, stampata ovunque: “STEVE ALBINI FIRST“. Un manifesto. Un promemoria. Un messaggio chiarissimo: l’anima del festival è ancora lì, dove dev’essere.

Appena varcati i cancelli, ci si trova davanti a tre statue giganti raffiguranti le Powerpuff Girls, le Superchicche, omaggio giocoso e simbolico alle tre headliner di quest’anno: Charli XCX, Sabrina Carpenter e Chappell Roan. Tre regine del pop contemporaneo che hanno catalizzato l’attenzione e firmato un sold out tra i più rapidi nella storia del festival. Eppure, il festival più importante d’Europa non ha perso un grammo della sua identità. Anzi, ogni anno si reinventa, si espande, si trasforma, accogliendo un pubblico nuovo e giovane che si mescola con naturalezza ai veterani.  Il risultato è una comunità eterogenea ma unita da un’unica certezza: qui, la musica è ancora al centro di tutto. 

I concerti delle headliner sono stati maestosi, non solo dal punto di vista musicale, ma anche per le scenografie, i costumi e le coreografie: veri e propri spettacoli all’interno del Parc del Fòrum. “Quest’anno abbiamo deciso di puntare di più sull’aspetto scenografico di alcuni concerti, e ci siamo resi conto che non solo era possibile, ma che il risultato ha superato di gran lunga le nostre aspettative”, così ha sintetizzato Alfonso Lanza, uno dei co-direttori del festival, durante la conferenza stampa finale all’hotel SLS.

Difficile, in effetti, non notare la mastodontica scenografia in costruzione durante il live dei Fontaines D.C., apparsi leggermente sottotono. Forse non si aspettavano di trovarsi di fronte un pubblico in prima fila con cappellini rosa da cowboy, più impaziente per l’arrivo di Chappell Roan che interessato al loro set. Due concerti, più di tutti, resteranno impressi nella memoria come i vertici emotivi e artistici di questo Primavera. Il primo è quello degli LCD Soundsystem, in una forma semplicemente smagliante. James Murphy e soci hanno ribadito, se mai ce ne fosse stato bisogno, perché restano una delle live band più importanti degli ultimi vent’anni: precisione millimetrica, groove irresistibili, quel mix unico di ironia, malinconia e sudore che trasforma ogni brano in un rito collettivo. Quando sono partite “Dance Yrslef Clean” e “All My Friends”, il tempo si è fermato, o meglio, ha ballato con noi.

Il secondo è stato quello di Anohni and the Johnsons, in una performance che ha travalicato i confini del concerto per entrare nel territorio dell’esperienza politica e sensoriale. Alternando i brani, eseguiti con una delicatezza e una forza disarmanti, a video documentari che mostravano scienziati, filosofi e attivisti parlare di inquinamento marino, collasso ambientale e responsabilità collettiva, Anohni ha costruito uno spazio di ascolto radicale. Non solo un palco, ma un altare laico da cui interrogare la coscienza del pubblico. Musica e messaggio si sono intrecciati senza mai sovrastarsi, generando un silenzio commosso e carico. Un’esperienza rara, necessaria. Le chitarre sono state assolute protagoniste di questa edizione: tutti i veterani del festival sono stati accontentati grazie alla presenza di nomi storici del rock, del punk e delle loro molteplici diramazioni. I redivivi Jesus Lizard hanno dimostrato senza mezzi termini che si può fare stage diving anche dopo i cinquant’anni, mentre i Cap’n Jazz, la leggendaria band post-hardcore dei fratelli Kinsella, hanno letteralmente “demolito” la Sala Apolo con un concerto a dir poco naïf, infilando nella scaletta persino una cover surreale di Take on Me degli a-ha.

Le chitarre non sono solo per i nostalgici. Anzi, è proprio nelle nuove leve che si è sentita tutta la vitalità della scena. I Gouge Away, con la voce tagliente e disperata di Christina Michelle, hanno suonato come se avessero il mondo da salvare. I Turnstile hanno presentato il nuovo disco in anteprima proprio al Primavera, confermandosi una creatura ormai ben oltre l’hardcore: ipercinetica, trasversale, una fusione riuscita fra mondi diversi, tra il nero e i colori accesi, capace di far pogare e ballare nello stesso momento. Il tutto nonostante un orario d’inizio proibitivo, le 3 del mattino, che al Primavera è quasi la norma. Il cuore chitarristico del festival batteva anche su ritmi meno furiosi e più obliqui. I DEHD hanno portato il loro indie (surf) rock minimale e diretto, fatto di riverberi, armonie disordinate e malinconia urbana: un suono che sembra sempre un po’ stonato e invece funziona alla perfezione. I Feeble Little Horse, al contrario, sono stati puro caos adolescente, chitarre impazzite e melodie sghembe che sembrano esplodere e implodere a ogni battuta, un concerto che sapeva di college, di camere in disordine, di ansia digitale.

Tra le piacevoli scoperte, impossibile non citare gli Yawners, che con il loro power pop infuso di emo e riff anni ’90 hanno portato una ventata di freschezza sul palco. Energici, diretti, con melodie che si stampano in testa e testi cantabili al primo ascolto, sono riusciti a trasformare un pomeriggio assolato in un piccolo pogo collettivo. Più cerebrali e austeri gli Still House Plants, che sembrano suonare indie rock come se fosse musica da camera contemporanea: tempi dispari, testi urlati e una chitarra che ogni tanto sembra dimenticarsi di essere solo uno strumento ritmico, mentre i Julie hanno portato uno shoegaze tenero e abrasivo, come se i My Bloody Valentine avessero deciso di suonare in cameretta con le tende chiuse. Per i più romantici non potevano mancare le nuove voci dello slacker rock: MJ Lenderman e This Is Lorelei, entrambi provenienti da quell’America minore fatta di frustrazioni quotidiane e piccoli slanci poetici. Due concerti apparentemente trasandati, ma in realtà costruiti con una cura e una sincerità disarmanti. Uno ti fa ridere mentre ti spezza il cuore, l’altro ti spezza il cuore mentre ti fa ridere.

Mentre le nuove generazioni dimostravano di saper custodire e trasformare l’eredità chitarristica, le vecchie glorie si prendevano il loro spazio senza bisogno di dimostrare nulla. I The Hard Quartet, nuova superband capitanata da Stephen Malkmus (ancora ostinatamente incapace di indossare una maglietta decente), hanno regalato uno dei live più solidi e “professionali” dell’intero festival. Gli Stereolab, invece, sono stati un balsamo: la loro miscela di krautrock, pop lounge e intellettualismo francofilo ha stregato chiunque avesse la pazienza di lasciarsi trasportare. Un set da vivere a occhi chiusi e cuore aperto. Anche il revival indie ha avuto il suo spazio. Un’operazione nostalgia, certo, perfetta per chi inizia i discorsi con un “ai miei tempi…”, ma realizzata con grazia ed eleganza. I Los Campesinos! hanno fatto piangere e ballare con la stessa naturalezza con cui si parla di ex o di partite di calcio perse male. Vederli suonare “Romance Is Boring” con la stessa urgenza del 2008 ha fatto sentire tutti un po’ più vivi. Un plauso speciale va ai TV on the Radio, semplicemente monumentali. Un concerto denso, stratificato, pieno di chiaroscuri. Una band che continua a colpire e curare, spesso nello stesso istante.

Il versante post-punk è stato rappresentato al meglio da due band in rapida ascesa. Gli High Vis hanno regalato uno dei live più intensi dell’intero festival: attitudine working class, testi taglienti, e un frontman che sembra uscito da un pub di Manchester con troppi pensieri in testa e nessuna voglia di nasconderli. Parlano di depressione, alienazione, precarietà emotiva, “Mind’s a Lie”, uno dei singoli più potenti dell’anno, fonde il furore del post-punk con le inflessioni più malinconiche dell’UK Garage, in un equilibrio fragile e travolgente. I Been Stellar, invece, si muovono su coordinate più raffinate e cinematografiche, ma non meno incisive: tra paesaggi sonori sospesi e improvvise esplosioni di feedback, anche il loro set ha lasciato il segno.

Sul versante elettronico, il cambiamento più evidente è stato l’addio alla collaborazione con Boiler Room, sostituita dal nuovo spazio Pulse by Cupra, che ha raccolto il testimone con dignità. La selezione musicale, più variegata e avventurosa, è stata accompagnata da un impianto sonoro all’altezza dei nomi sul cartellone. Il momento più affollato? Quando è stato annunciato all’improvviso il DJ set di Kevin Parker dei Tame Impala, con code di ore e un tam tam impazzito sui social e nei gruppi Telegram del festival. La serata inaugurale del mercoledì, invece, ha avuto come protagonista un Caribou in stato di grazia. Amico storico del Primavera, Dan Snaith è salito sul palco visibilmente emozionato davanti a una folla vastissima e incredibilmente partecipe, trasformando il suo live in una lunga celebrazione collettiva fatta di beat caldi, luce dorata e balli liberatori. 

Tra i momenti da ricordare spicca il live di Jamie xx che ha confermato la sua abilità unica nel trasformare un live elettronico in un’esperienza emotiva e collettiva. Con la consueta eleganza ha intrecciato house, breakbeat, bass music e derive soul in un flusso inarrestabile, accompagnato da visual minimali e una gestione del crescendo che ha tenuto il pubblico sospeso tra attesa e liberazione. Uno di quei set che non spingono per forza sull’impatto, ma che lavorano in profondità e che ti ritrovi addosso anche a distanza di giorni. Un’altra novità rispetto all’anno scorso è stato il ritorno di un palco dalle dimensioni più contenute, il BITS by Plenitude, posizionato nei pressi dei main stage e interamente dedicato alla musica elettronica. Qui si sono alternati nomi del calibro di DJ KozeKittinNicola Cruzk, John Talabot e altri, una line-up che ha saputo coniugare qualità, coerenza e varietà. Un esperimento riuscito, destinato a essere riproposto nei prossimi anni, come confermato in conferenza stampa da Alfonso Lanza.

Fuori dai palchi dedicati all’elettronica, il set di chiusura dei Sandwell District merita una menzione speciale,un’ora e mezza di techno densa, ipnotica, costruita con pazienza e metodo. Nessun drop telefonato, nessuna concessione facile, solo un viaggio oscuro e magnetico, dove il tempo sembrava sospeso. Unico rammarico la chiusura anticipata di mezz’ora rispetto all’orario previsto. Un’altra novità significativa di quest’anno è stata la ristrutturazione della domenica pomeriggio, tradizionalmente curata da Brunch Electronik, e ora affidata al team di Primavera BITS x Nitsa. L’evento, aperto anche a chi non possedeva l’abbonamento completo del festival, ha offerto una line-up solida ma più orientata al grande pubblico, con nomi di richiamo internazionale come CarlitaMichael Bibi e Paul Kalkbrenner.
Una scelta che ha portato al Parc del Fòrum una fetta di pubblico diversa, meno affezionata al culto Primavera e più abituata ai circuiti dei grandi eventi elettronici europei.

Accanto ai grandi nomi, il reparto elettronico del Primavera ha brillato anche grazie a una serie di set più nascosti ma altrettanto memorabili. I FCUKERS hanno fatto esplodere il dancefloor con un’energia industriale e primitiva, mentre AKA HEX ha costruito un set oscuro e frammentato, perfetto per i cultori della notte profonda.  Kelly Lee Owens, con la sua eleganza minimalista e il suo approccio ipnotico alla techno, ha offerto un momento di sospensione quasi mistica. I Dame Area hanno invece portato sul palco la tensione e la teatralità della no-wave e del post-industriale: una performance fisica e affilata, al confine tra musica e performance art, mentre The Dare ha fatto impazzire il pubblico con il suo mix sleaze di electroclash e pop deviato.

Sorprendenti anche i SIDEPROJECT, trio islandese capace di trasformare un DJ set in una scultura sonora in movimento, tra glitch, ambient e techno mutante. Hanno suonato al Levi’s warehouse, l’unico spazio al chiuso del Parc del Fòrum, un vecchio garage riconvertito in una stanza fumosa e pulsante, riservata ai set più estremi e sperimentali del festival: un rifugio sonoro per chi cercava l’esperienza più densa e fuori dagli schemi. I 4AM Kru, con il loro rave a base di jungle e breakbeat old school e le loro danze a dir poco fuori dagli schemi, hanno incendiato i subwoofer, mentre Danny L Harle ha chiuso una delle notti con una selezione visionaria e kitsch-pop da mondo parallelo. Un baccanale tra rave, cartoni animati e synth arcobaleno, peccato che il suo dj-set di chiusura del festival non sia stato all’altezza del suo live.

Fra i gruppi più sorprendenti troviamo sicuramente i Glass Beams, capaci di rubare la scena anche sui palchi principali, subito prima delle headliner. Sembravano usciti da un sogno psichedelico: maschere dorate, groove ipnotici, scale orientali che si intrecciavano in ritmi circolari e irresistibili. Il pubblico non capiva bene cosa stesse succedendo, ma non riusciva a smettere di ballare, soprattutto durante la cover di Raga Bhairav di Charanjit Singh (recuperate la sua storia appena potete: un pioniere misconosciuto della acid house… nel 1982). Tra le rivelazioni più intense c’è stato anche il live dei The Sabres of Paradise, che, nonostante l’assenza del compianto Andrew Weatherall, uomo a cui dobbiamo ancora molto, hanno regalato uno dei set più potenti dell’intero festival. Un viaggio sonoro tra dub, dancehall e techno primordiale anni ’90, con un gusto per la selezione e i passaggi che ha stregato sia i veterani che i neofiti. Un vero e proprio ripasso sensoriale di quello che la club culture era e potrebbe ancora essere. I Salem, nella loro unica data europea, hanno portato sul palco un’estetica al limite tra blasfemo e sacro, presentandosi con una statua gigante della Madonna e un set che ha ipnotizzato chiunque fosse presente. La loro witch house ha riempito l’aria di fumo, riverberi tossici e sensualità decadente. Da sottolineare la cover devastante di “Better Off Alone”rallentata fino a 40 BPM, trasformata in un incubo lento e narcotico, sembrava di muoversi da dentro un collasso da oppiacei.

Tra i micro-palchi, spesso snobbati dai più ma capaci di regalare momenti di rara intensità, spicca quest’anno il Levi’s Plaza, dove si è consumato uno dei dilemmi più dolorosi del festival: saltare gli Idles, che pare abbiano incendiato il palco principale, per assistere al live degli Snow Stripper. Una scelta azzardata? Forse. Ma ampiamente ripagata.  Il duo italo-newyorkese ha portato un set sospeso tra hyperpop, emo digitale e malinconia da cameretta, riuscendo a commuovere e far muovere allo stesso tempo. Estetica Y2K, voce filtrata, beat scomposti, sembrava il racconto sonoro di una generazione che si dissolve online. Un live piccolo, ma che ha lasciato il segno. Perché al Primavera, a volte, il momento più memorabile è proprio quello che non ti aspettavi.

Il Primavera, però, non si esaurisce nel recinto del Parc del Fòrum. I concerti “a La Ciutat”, sparsi per Barcellona nei giorni precedenti e successivi al weekend principale, sono come ciliegie che guarniscono una torta già abbondante e golosa. Piccoli eventi preziosi, spesso in club storici, che aggiungono profondità e intimità all’esperienza complessiva.
Dal live spaziale dei Beach House, che ti solleva su un altro piano esistenziale, innalzandoti fino all’iperuranio pur lasciandoti i piedi ben piantati sul pavimento appiccicoso del Razzmatazz, fino ad arrivare all’esibizione devastante dei Chat Pile, andata in scena alle due del mattino dell’ultima notte nella Sala 2 dell’Apolo. Un set torbido, teatrale, abrasivo, che ha lasciato tutti con le ossa rotte e il cuore pieno. Un modo perfetto e disturbante per chiudere la settimana.

Quest’anno non è stato possibile utilizzare l’Auditori del Fòrum, occupato da altri eventi e la direzione del Primavera ha deciso di dirottare alcuni concerti (originariamente pensati per quello spazio) nelle sale de La Ciutat. Una scelta obbligata che ha prodotto esiti alterni: alcuni davvero sorprendenti, come il live di Salif Keïta, di cui si è parlato con entusiasmo per giorni, altri, al contrario, hanno lasciato il pubblico perplesso. È il caso dell’esibizione di Kali Malone, che ha scelto di presentarsi con un set radicale, fatto di drone, rumore bianco e stratificazioni noise, abbandonando del tutto le sonorità sacre e profonde dei suoi lavori per organo. Un’ora difficile, interrotta bruscamente da un malfunzionamento dell’impianto elettrico della sala. Personalmente, avrei preferito un’esibizione più vicina al suo repertorio più meditativo e strutturato, ma tant’è, anche questo fa parte del gioco.

Il Primavera Sound non ha mai avuto paura di prendere posizione, e quest’anno più che mai ha dimostrato una chiarezza politica e umana rara nel panorama dei grandi festival internazionali. All’ingresso del Parc del Fòrum, i partecipanti venivano accolti da un’installazione artistica in grado di simulare i rumori dei bombardamenti: un’opera d’impatto, che costringeva chiunque a fare i conti con la brutalità della guerra ancora prima di sentire la prima nota. L’attivismo non si è fermato lì. Durante il live dei Fontaines D.C., sui maxischermi è apparso un messaggio chiaro, inequivocabile:

“ISRAEL IS
COMMITTING
GENOCIDE
USE YOUR VOICE

Un gesto potente, che ha scosso il pubblico e lasciato spazio a riflessioni profonde. Non era solo una band che suonava, era un atto di accusa, un invito ad agire.

Kneecap, dal canto loro, hanno trasformato la Sala Apolo in un concentrato esplosivo di musica e militanza. Hanno espresso la loro solidarietà al popolo palestinese senza mezze misure e non hanno risparmiato nemmeno i simboli del potere britannico: “Maggie is in a box” è risuonato come un coro ripetuto all’infinito, a metà tra sfottò e rito liberatorio. Un concerto che ha avuto l’energia di una manifestazione e la vitalità di una festa collettiva.

In un momento storico in cui molti eventi culturali preferiscono evitare prese di posizione, il Primavera ha scelto la strada opposta. Una scelta di trasparenza, responsabilità e indipendenza che lo distingue da altri grandi festival ormai fagocitati da logiche aziendali. Emblematico è il caso dell’acquisizione di Superstruct, società proprietaria, tra gli altri, del Sónar, da parte del colosso finanziario KKR, che ha innescato una lunga catena di boicottaggi da parte di pubblico e artisti nei confronti di numerosi eventi. Il Primavera, pur crescendo in scala, mantiene invece una coerenza rara, speriamo il più a lungo possibile. Una delle certezze di questo festival è che non si può vedere tutto. Le sovrapposizioni sono spesso crudeli, e alcune scelte fanno male. Quest’anno ho dovuto rinunciare a live attesissimi come quelli di FKA twigs, Magdalena Bay, Wet Leg, Waxahatchee, Wolf Alice e Floating Points, solo per citarne alcuni. Basta leggere questi nomi per immaginare un festival parallelo, altrettanto solido e memorabile. 

È una delle peculiarità del Primavera: ti costringe a scegliere, a perdere qualcosa per guadagnare qualcos’altro. Spesso ti lascia il dubbio di aver sbagliato tutto. Poi però ti ritrovi sotto un altro palco, magari davanti a un’artista che non avevi mai ascoltato, e capisci che in fondo è proprio questo il senso di esserci. Ognuno si costruisce il proprio Primavera, diverso e unico. Un festival intimo nella sua immensità, che cambia volto a seconda di chi lo attraversa.

Ogni anno il Primavera riesce a reinventarsi, eppure a restare sé stesso. Non è il pubblico a cambiare: è il Primavera che sa accogliere ogni novità con naturalezza, restando sempre fedele alla sua anima indipendente. Nonostante l’immensa quantità di palchi, artisti, DJ set, conferenze, installazioni, il festival continua a dare la sensazione di essere un evento costruito con cura, con mani umane, come se, e in fondo lo sappiamo, dietro ogni scelta ci fosse ancora qualcuno che ascolta dischi per davvero. Anche quando mette tre popstar in cima al cartellone, anche quando abbraccia il mainstream, il Primavera non perde il suo spirito da evento artigianale. Un gigante che riesce ancora a parlare come un piccolo festival. E questa, più di ogni altra cosa, è la sua vittoria. Nel 2025 hanno vinto loro. E abbiamo vinto anche noi. La formula perfetta, per ora, sembra essere arrivata. Speriamo che non cambi mai.

L’appuntamento è già fissato: il Primavera Sound 2026 si terrà dal 4 al 6 giugno, e i biglietti sono già disponibili sul sito ufficiale del festival. Chi c’è stato lo sa, è difficile non tornare. Chi non c’è stato… beh, ha un anno di tempo per rimediare.

Foto: LCD Sound System, The Jesus Lizard – Sergio Albert, The Dare – Sharon Lopez, Beach House – Estrella Damm, Fontaines D.C. – Eric Pamies, Caribous – Christian Bertrand
In copertina foto di: Silvia Villar