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Capo Plaza: «Per ogni hater ho 10.000 fan, e la cosa mi sta bene»

A vent’anni si prendono certi treni che fanno mille fermate al minuto. Ad ogni incrocio, ad ogni caffè, ad ogni email c’è gente che scende e gente che sale. Luca – che di qui in avanti chiamerò Plaza – ne ha visti pochi scendere e molti salire, come del resto accade in tutte le storie di successo. Lui invece è rimasto sempre lì, al suo posto, su un sedile squagliato dalla fiammella di un Bic. Il suo è uno di quei sedili pieni di scritte e svastiche fatte con l’Uniposca in cui la tappezzeria ha un motivo geometrico di dubbio gusto. Il treno di Plaza, quando è partito da Salerno qualche anno fa, era un regionale. Oggi è un TAV di cui nessuno sa con certezza definire il capolinea. Magari proprio San Siro, che fa da cornice al suo nuovo video, Allenamento #4, che ha anticipato il nuovo album. «Mi manca tanto quello stadio, ma d’altronde stiamo affrontando uno dei momenti più difficili della storia moderna – mi dice – L’obiettivo è tornarci non tanto da spettatore ma da protagonista, sarebbe un sogno che si realizza, per me e per il mio team». Resta qualche secondo in silenzio, mentre il registratore dell’iPhone continua a registrare. Ho la sensazione che stia immaginando, visualizzando, pregustando quel momento.

Comunque partiamo dall’inizio, come è nato il concept di Plaza?
Il mio team e Warner hanno costruito insieme a me un progetto più maturo rispetto a 20 in cui l’estetica e il design giocano un ruolo principe. Avevamo le idee abbastanza chiare, ci sono stati due lunghi anni per definire ogni singolo dettaglio. Ciò che ci ha guidato fin dall’inizio dentro questo concept è il colore blu, che è uno dei miei preferiti. Il blu è il colore della purezza, della nobiltà e Plaza voleva esser questo. Mostrare al pubblico un volto che ancora non conosce è importante per me. Due anni fa non sono riuscito a scoprire questo lato più intimo perché ero più acerbo, ma è arrivato il momento. Le idee di uno piuttosto che di un altro, mescolandosi hanno dato vita alle fondamenta di questo disco che sotto ogni punto di vista – in particolare lato marketing, visual e promo – vale cento volte 20.

Tra tutti i rapper sei quello che lascia intravedere un po’ di più Luca sotto il costume da Plaza. Quanta distanza c’è tra quello che mostri e quello che sei?
Non c’è alcuna differenza o distanza. Se una storia o semplicemente un momento non appartiene a Luca, non può finire su un testo di Plaza. Ne ho cancellate parecchie di barre che non mi rappresentavano appieno. Come dicevi tu, forse sono uno dei pochi che non ha paura di mostrarsi per quello che è. Non uso molto i social perché la mia vita privata non deve essere di pubblico dominio e ci tengo a custodirla il più possibile al sicuro, ma quando parliamo di musica questo velo si strappa. Stiamo lavorando per conseguire questo obiettivo: continuare ad essere noi stessi, ma migliorando ogni giorno.

Tra tutte, la cosa che più mi impressiona del modo di parlare di Luca, è il continuo ripetere la parola “obiettivo”. Lo dice continuamente e ogni volta è come se lo scrivesse su un qualche post-it fluorescente nella testa. È uno di quelli che vive di sfide, il più delle volte con sé stesso. E poi dall’altra parte del telefono mi trasmette un enorme dinamismo, un senso di futuristica velocità: “devo correre”, “devo crescere”, “devo fare questo, poi quello”. Uno che come Plaza ha preferito correre – o come disse lui stesso citando Neil Young: bruciare in fretta piuttosto che spegnersi lentamente – è Kurt Cobain. Lui però si sentiva colpevole di essere il punto di riferimento di una generazione e non ha retto il peso. «Sono consapevole di essere un punto di riferimento ma questo non mi pesa. È evidente che la mia età (23 anni il prossimo aprile ndr.) mi permette di fare cose che ad un ventenne puoi perdonare più facilmente. Certo, di cazzate vorrei farne di più ma il mio ruolo mi responsabilizza e se devo essere sincero ciò che più mi fa soffrire è il fatto di dover crescere più in fretta. Ma è uno scotto che sono disposto ad accettare».

In una recente intervista hai raccontato che c’è stato un momento in cui volevi abbandonare la musica per la troppa popolarità.
Quel momento pieno di incertezze, insicurezze e batoste in realtà mi ha aiutato a rendere più solida la mia strada e più nitido il mio percorso. Alla luce dei risultati conseguiti direi che sarebbe stato un dovere morale impegnarsi e non mollare. Sono uno di quelli che si ostina e, anche se a vent’anni è facile sbarellare, io ho cercato di mantenermi in carreggiata.

Hai mai pensato di risolvere il problema andando a vivere all’estero?
Ci penso continuamente e probabilmente lo farò. Voglio andare a vivere all’estero per alcune settimane, forse un anno, per aprire i miei orizzonti, incontrare nuovi modi di vedere le cose e ovviamente per capire come gira la musica fuori dall’Italia. Non so dirti dove, potrebbe essere Londra, Parigi, New York. Ho amici un po’ ovunque quindi non sarei solo. Il mio obiettivo per i prossimi anni sarà viaggiare.

Che rapporto hai con la tua famiglia?
All’inizio nessuno di loro credeva nel potenziale della mia musica, ma col tempo sia mia madre che mia sorella e mio padre sono diventati miei fan ed alleati. Il fatto che in origine per loro fosse complicato capire non mi fa stare male anzi credo che se un ragazzo di tredici anni prende dei treni e gira in lungo e in largo la provincia per fare musica non puoi far altro che lasciare che sorgano interrogativi. È un meccanismo di protezione più che diffidenza. Anche perché poi allora combinavo spesso guai e dunque era lecito preoccuparsi se tuo figlio ti diceva che voleva fare il rapper. Mi sono conquistato la loro fiducia col tempo.

E il rapporto con i tuoi amici?
Per quanto riguarda le amicizie il percorso è stato molto più burrascoso: tanti pezzi li ho persi per strada, tanti altri sono arrivati dopo. Non ti sto a raccontare a chi mi riferisco ma è evidente che le cose cambiano molto velocemente quando diventi noto. A Milano ho trovato una seconda famiglia in zona 8.

Gli haters ti fanno ancora incazzare?
All’inizio tutto ti infastidisce, poi gradualmente ti rendi conto che statisticamente per ogni hater ci sono 10.000 fan e ti sta bene così. Oggi posso dirti che mi lascio scivolare via le critiche di dosso e vivo serenamente. Poi ovviamente non ti nascondo che le critiche non costruttive infastidiscono chiunque e che nessun complimento di un supporter può controbilanciare una critica di un odiatore seriale.

D’altronde siamo esseri umani, è normale.
Dirò una banalità, ma è evidente che le critiche personali sono quelle che ti fanno più male: io sono uno di quelli che ha sempre provato fastidio nei confronti di chi parla senza conoscere, figurati quando il destinatario di certe dichiarazioni false sono proprio io. Quando a qualcuno non piace la mia musica invece è tutto più facile da capire e metabolizzare.

In Streets avete ripreso parte di Dilemma di Nelly e Kelly Rowland. Non è poco da rapper inserire una citazione al soul USA inizio anni 2000?
È stata un’idea di Antonio Dikele Distefano. Era da tempo che volevamo campionare una hit iconica e lavorarci sopra. Quando abbiamo individuato questo sample eravamo tutti convinti del fatto che fosse quello giusto. Ci abbiamo messo un po’ ma, come tutte le idee che nascono tra amici – in questo caso in studio – alla fine funzionano e credo ne sia valsa la pena.

Ti sei mai chiesto se saresti arrivato lo stesso al successo se non fossi nato a Salerno?
La provincia mi ha aiutato. Se non fossi venuto da Salerno non avrei mai fatto una crescita così esponenziale. Sarò sempre grato alla mia città per questo. C’è stato per forza di cose un momento in cui mi sono reso conto che Salerno mi stava troppo stretta o che forse le mie ambizioni erano troppi grandi per prendere forma in un piccolo centro, eppure ogni qual volta si presenta l’opportunità per tornare, lo faccio. Purtroppo ora non è possibile, ma lo farò al più presto.

In Allenamento #4 canti: “Credi che fingo, è lungo il mio libro”. Perché secondo te da fuori si fa fatica a comprendere l’autenticità della trap e dei trapper?
La trap è un genere molto criticato e credo che ancora oggi non venga capito fino in fondo, ma il grande lavoro fatto da me e Sfera, ma anche da emergenti come Rondo (Rondodasosa ndr.) e Baby Gang sta rendendo questo linguaggio sempre più comprensibile alle masse. Poi, a prescindere dalla comprensione da parte di una fetta di ascoltatori, credo sia sotto gli occhi di tutti ormai il fatto che la trap sia il motore dell’economia musicale italiana e nel contempo il genere più internazionale offerto dagli artisti del nostro Paese. Diamo tempo al tempo, il ricambio generazionale faciliterà questo processo.

A proposito di Sfera, hai più volte detto che è stato uno dei primi a credere in te. Vivi con pressione o ti fa stare bene il fatto di doverti contendere lo scettro di miglior trapper italiano con un amico?
Io penso al mio percorso e credo lui pensi al suo. Siamo amici da tanto tempo e non c’è dubbio sul fatto che, quando c’è l’opportunità di collaborare, lo facciamo con grande piacere. A me fa piacere vedere come il suo percorso si arricchisca ogni anno e spero valga lo stesso anche per lui. Quella tra me e Sfera è contemporaneamente una sana e pura amicizia ed una sana e pura competizione. La competizione è anche un ingrediente fondamentale da sempre nella musica, ti basti pensare all’hip hop anni Novanta.

Quindi Sfera e Plaza come The Notorius B.I.G. e Tupac.
Anche loro hanno fatto dei brani assieme. Per farti capire quanto per me lui sia l’artista più internazionale in Italia, ti dico che fin dall’inizio ci siamo imposti di non fare altri featuring con artisti del nostro Paese, infatti Demonio è l’unico strappo alla regola.

Sì, ma dunque: Plaza è il disco dell’anno?
Sono molto autocritico, ma me lo auguro. Se taglieremo questo traguardo, succederà. Altrimenti ce ne faremo una ragione e continueremo a lavorare a testa bassa come abbiamo sempre fatto. Sarei ipocrita se ti dicessi che non sono soddisfatto del risultato, ma adesso sta al pubblico dimostrare calore attorno a questo progetto. Come avrai capito sono uno che vive di sfide, quindi non voglio alzare troppo l’asticella delle aspettative per non rimanerci male. Se devo essere sincero, la mia più grande soddisfazione per ora è stata quella di aver “cacciato” il disco dopo due anni di attesa. I platini sono un plus.

Quando ci salutiamo, Plaza mi ringrazia per l’intervista. Lui, a me. Accade sempre, ma questa è la prima volta in cui non percepisco quel “grazie” come una frase di circostanza. Questo perché ogni spazio, ogni attenzione concessa, ogni contatto, hanno un ruolo importante in quell’allenamento costante di cui parla nel leggendario #2. Il successo, d’altronde, cos’è se non la somma di step infiniti ed infinitesimali? Mette giù la cornetta a diciassette minuti e trentotto secondi. Sono pochi rispetto ai nostri standard, ma è come se avessimo parlato una vita. Quando ognuno dal rispettivo capo del telefono torna alla propria vita, è come se i ritmi si rimodellassero ad immagine e somiglianza delle nostre routine. I miei tempi tornano a dilatarsi, i suoi a contrarsi. Stabilire un contatto a metà strada tra il tempo di Plaza ed il mio è stato surreale. Scendo dal treno più veloce che abbia mai visto, mio malgrado. Resterei volentieri un altro po’. Lui resta sul suo sedile, mette un’altra spunta col pennarello sulla to do list di oggi. Guarda avanti. Pianifica, sogna. Come un rettile che non dorme mai.


Art Director Emanuele Camilli
Foto di Andrea Bianchera
Digital Cover di Jadeite Studio