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Il finale de “La casa di carta” certifica il totale flop degli showrunner

A tre mesi di distanza dal rilascio della prima parte, Netflix ha distribuito la seconda metà dell’ultima, attesissima stagione della serie più discussa degli ultimi anni. Nata come miniserie autoconclusiva per la televisione spagnola e – purtroppo – rilanciata da Netflix come serie in più parti, La casa di carta, al suo esordio sulla piattaforma, aveva avuto un’accoglienza più che favorevole, anche da parte di molti degli attuali detrattori: alle prime due parti, a ragione o a torto, si perdonavano infatti con molta più facilità i numerosi e spesso sconcertanti buchi di trama (come dimenticare la moto di Tokyo?), forse perché si riconosceva alla serie il merito di divertire e soprattutto di portare sul servizio streaming più popolare del pianeta dei prodotti che rappresentassero per l’appunto quelle parti del pianeta che non si raccolgono sotto la sigla U.S.A.

Su Netflix, tra il 2017 e il 2019, oltre alle due parti della serie in esame è però uscita la terza, distribuita dopo il teen drama più imbarazzante di sempre ovvero Elite, al quale è seguita Toy Boy – oggi caduta nell’oblio ma campionessa di click all’esordio, per non citare il sontuoso rilancio di Vis a Vis, per gli amici Orange is the New Black con Sierra e Nairobi. La casa di carta, da serie di livello medio-basso ma sintomo positivo dell’apertura al mondo della piattaforma, è quindi diventato un prodotto imperdonabilmente mediocre, segno inequivocabile della stupidità di chi la guarda e responsabile della decadenza di Netflix, decadenza che parla appunto spagnolo. L’evoluzione del dibattito intorno alla serie è insomma molto più interessante della serie stessa, che a parere di chi scrive rimane comunque un prodotto del quale i meriti, nell’ambito del panorama televisivo spagnolo, valgono più di quei difetti che nella più scadente serie statunitense sarebbero imperdonabili. Questo discorso è tuttavia inapplicabile alle stagioni prodotte da Netflix.

La prima parte della quinta parte (?), che abbracciando un quasi dichiarato autoparodismo aveva fatto – letteralmente – dimenticare lo stillicidio della quarta parte, lasciava sperare in un finale degno perlomeno della terza parte (il che è tutto dire), ma questa secondo rilascio, in cui le sempre meno interessanti scene d’azione sono intervallate da dialoghi filosofico-psicanalitici volti a spiegare le profondissime motivazioni dei rapinatori, ha rapidamente spento qualsiasi speranza di un salvataggio finale a opera degli showrunner e non del Professore. Resta la bravura di alcuni attori, da lungo tempo non più supportati da una scrittura dignitosa, e lo sporadico divertimento offerto da alcune idee degli sceneggiatori, su tutti lo show televisivo di Palermo, che insieme ad altre rare scene simpatiche risolleva un’attenzione altrimenti sepolta tra la noia e il cringe. Nota di merito per il personaggio migliore della stagione, ovvero un’insospettabile Tokyo: dopo averla detestata per quattro anni, una volta sparita, ci siamo infatti resi conto di quanto fosse utile nel movimentare la situazione con le sue decisioni, sì sconcertanti ma mai quanto quelle degli showrunner.