dark mode light mode Search Menu
Search

“Pistol”: nessuno meglio di Danny Boyle sa raccontare il disagio generazionale

Nonostante Johnny Rotten l’abbia definita «la merda più irrispettosa che abbia mai dovuto sopportare», “Pistol” centra l’obiettivo.

Dopo la chiacchierata Pam&Tommy, a sua volta prodotta da Hulu e distribuita internazionalmente da Disney+, Pistol è la seconda miniserie uscita quest’anno a concentrarsi sulla biografia di personaggi controversi del panorama musicale e culturale degli scorsi decenni. Basata su Lonely Boy: Tales from a Sex Pistol, autobiografia del chitarrista Steve Jones, la serie ha subito fatto discutere per lo sconcertante accostamento di casa Disney e del nome di una delle band più trasgressive, antisistema e irriverenti della storia del rock: siamo di fronte a una scelta sicuramente poco coerente, forse anche scoraggiante, tanto che lo stesso Johnny Rotten ha intrapreso una battaglia legale per tentare di impedire la realizzazione del progetto, che ha definito «una fantasia borghese» e «la merda più irrispettosa che abbia mai dovuto sopportare». In realtà, gli stessi Sex Pistols sono stati un fenomeno pieno di contraddizioni, la cui provocazione è sempre stata in bilico tra la denuncia sociale e la trovata pubblicitaria. Come è ben narrato dalla serie, infatti, il creatore della band è stato Malcolm McLaren, aspirante produttore vicino alle avanguardie artistiche del periodo, che insieme alla moglie Vivienne Westwood, stilista geniale e anticonformista, desiderava dare un volto musicale a quel nuovo movimento che si stava sviluppando nelle periferie di Londra, formato da una gioventù disillusa, nichilista e piena di rabbia nei confronti di un sistema socioeconomico ipocrita e perbenista.

McLaren selezionò quindi alcuni dei ragazzi che frequentavano il SEX, il negozio di abbigliamento della moglie, diede loro una sala prove e li incaricò di incanalare nella musica la rabbia che li spingeva a vestirsi e a comportarsi come dei punks – letteralmente: persone di nessun valore. La breve storia della band, caratterizzata da un destabilizzante ma vincente rifiuto della tecnica musicale e vocale, fu subito segnata dal conflitto tra McLaren e Johnny Rotten, desideroso di affrancarsi dalle manipolazioni del manager, il quale organizzò esibizioni-provocazioni spesso più simili a performance d’avanguardia che a veri e propri concerti – il culmine fu sicuramente l’esecuzione di God Save the Queen sul Tamigi il giorno del Giubileo di Elisabetta II. Nonostante l’intima contraddizione interna alla storia del gruppo, la carica sovversiva dei Sex Pistols non si esaurì nella provocazione creata a tavolino: la paternità della musica e soprattutto dei testi, veri manifesti della mentalità punk, sono infatti opera dei membri del gruppo e di Rotten in particolare, che rivendicò sempre la propria autonomia rispetto McLaren, lontano in prima persona dagli eccessi anticonformisti del gruppo. McLaren stesso, inoltre, non era un affermato manager dell’industria musicale ma un agitatore ventinovenne la cui esistenza era molto vicina a quella dei membri del gruppo, mentre Vivienne Westwood, forse la vera profeta del movimento, con il SEX portò avanti una vera e propria forma di sovversione, che usava l’abbigliamento come provocazione estetica e sociale.

Chi fosse la mente del movimento punk, filosofia di vita prima che genere musicale, è la domanda che la serie pone continuamente allo spettatore: la paternità del progetto Sex Pistols potrebbe essere attribuita sia a McLaren, sia a Westwood, sia a Rotten, sia a Steve Jones, che insieme agli amici Paul Cook e Glen Matlock aveva fondato, prima di conoscere il manager, il nucleo di quello che sarebbe diventato uno dei gruppi più importanti degli anni Settanta. Steve Jones, figlio abbandonato del proletariato inglese, cerca in McLaren una figura paterna: senza di lui, che ha fondato il gruppo e iniziato il rapporto con il manager, i Sex Pistols non esisterebbero, ma le figure di Johnny Rotten e di Sid Vicious, estranee alla formazione originale, lo sovrastano sia nei pochi anni di vita della band, sia nella mitologia punk che ha contribuito a creare. Per accompagnare lo spettatore nell’underground londinese di fine anni Settanta, il suo personaggio è quello giusto, proprio perché è meno estremo rispetto a quello di Rotten: il frontman, insieme a McLaren, è comunque la figura che più si impone nel corso dei sei episodi di Pistol, sia per la splendida interpretazione di Anson Boon, sia per una scrittura che dà il meglio di sé proprio nel tratteggiare la psicologia del cantante, introdotto alla fine del primo episodio con una modalità che gioca in modo intelligente con le aspettative dei fan del gruppo. Sid Vicious, ben interpretato da Louis Partridge, è meno approfondito, ma la scelta di presentarlo come un ragazzino ingenuamente distruttivo ben si adatta alla sorte tragica che lo rese l’involontario simbolo di tutto il movimento punk.

La sua storia d’amore con Nancy Spungen, già raccontata da Alex Cox nel bellissimo Sid&Nancy, si è talmente imposta nell’immaginario collettivo da mettere quasi in ombra tutto il resto del fenomeno Sex Pistols, ed è quindi comprensibile la scelta di dedicare ai due uno spazio relativamente scarso. La storia dei Sex Pistols è insomma talmente particolare da poter affascinare e coinvolgere anche chi non ha alcun interesse nei confronti del punk e la serie, nonostante l’incoerenza produttiva di fondo, riesce a raccontare con intelligenza la parabola di un gruppo che ha segnato la storia della musica e soprattutto del costume. Oltre all’ottimo cast e alla scrittura, che spesso scade nel melodrammatico ma riesce nel complesso a non risultare banale, il merito è da attribuire alla direzione artistica, curata da Danny Boyle, che si è già dimostrato capace di raccontare in Trainspotting il disagio generazionale del Regno Unito, opta infatti per un montaggio caotico, spesso ai limiti della sperimentazione, e per una fotografia vintage che ricrea benissimo l’atmosfera degli anni Settanta. Il fatto che la serie sia uscita in Italia nel giorno della morte di Elisabetta II, appare inoltre come l’ultima, questa volta involontaria, provocazione della band.