Ancora in preda al dolore e allo sgomento per la perdita improvvisa ed incolmabile del batterista Taylor Hawkins, il 25 marzo di un anno fa, il quesito che, pur nel rispettoso silenzio del lutto, rimbombava tra le file del panorama musicale e nei cuori affranti dei fan suonava più o meno così: che cosa ne sarà dei Foo Fighters? Una domanda che ha accompagnato anche me, da appassionata del gruppo fondato nel 1995, come riscatto, come volo della fenice dopo la morte di Kurt Cobain, compagno di band ed amico di Dave Grohl che decise di alzarsi dal suo sgabello, di appoggiare le bacchette roteanti in modo così identitario, per abbracciare chitarra e microfono, scrivendo un nuovo capitolo, della sua carriera e della storia del rock. Ce la farà anche stavolta? Me lo sono chiesta, con l’eco di quel verso di Best Of You che, durante i live dei Foo Fighters, viene cantato all’unisono, in una sorta di confessione autentica che contempla un passato di gesta eroiche, di ostacoli superati, pur nella consapevolezza della propria ineluttabile natura umana: “I’m getting tired of starting again/Somewhere new”. Dopo l’annuncio progressivo del ritorno sui palchi come headliner del Boston Calling, Sonic Temple, Bonnaroo, Outside Lands, Ohana e Louder Than Life a cui si è aggiunto quello del tour estivo, la risposta definitiva è arrivata qualche giorno fa con la pubblicazione di Rescued che anticipa l’undicesimo album della band, But Here We Are, in uscita a giugno.
Abbinato ad un lyric video che imprime, attraverso lo scorrere delle strofe, il messaggio di salvezza sulle ali della musica, il brano rimanda all’aria di casa, a quel sound ormai così familiare che porta inevitabilmente ad esclamare «bentornati, ragazzi!». La ripresa del vecchio stampo, con il pezzone che fa esplodere casse ed amplificatori nello stile di All My Life o The Pretender, allargato all’intero mood del nuovo disco, è confermato dal comunicato ufficiale in cui si legge: “Canalizzando a livello sonoro l’ingenuità del debutto dei Foo Fighters del 1995, influenzata da decenni di maturità e profondità, “But Here We Are” è il suono di fratelli che trovano rifugio nella musica che li ha fatti incontrare ventotto anni fa, un processo tanto terapeutico quanto di continuazione della vita”. Un processo che si snoda in maniera coerente con il temperamento di Grohl, in qualità di leader e trascinatore indiscusso della band: un uomo ed un artista che ha sempre trovato canali inediti di espressione, si è raccontato attraverso dischi, libri, interviste, documentari, mettendo a nudo il suo spirito indomito nel voler sperimentare, osare, andare avanti ed oltre, con risultati stratosferici ad ogni tentativo. «Un marketing manager impeccabile», è stata l’affermazione a cui, spesso, come altra faccia della medaglia, ho sentito il dovere di controbattere, confutandola attraverso aneddoti, ricordi di live – come dimenticare la serata conclusiva dello Sziget 2019 quando Dave fece salire sul palco un ragazzo in carrozzina, diventato il simbolo del potere inclusivo della musica – letture sul suo bel rapporto con i colleghi, da Eddie Vedder e Liam Gallagher a Paul McCartney.
Tuttavia, tirando le somme di un anno così drammatico segnato dalla perdita di Hawkins, figura cardine del gruppo ed in cui tutti avevamo rivisto le luci e le ombre di quell’aurea di talento dai capelli dorati – chi non ha pensato almeno una volta a Kurt quando Taylor cantava con Dave alla batteria? – è possibile ricominciare davvero, riavvolgendo il nastro, benché consapevoli che ogni tappa, ogni performance, ogni traguardo saranno omaggi al compianto batterista? A partire da But Here We Are, descritto come “il primo capitolo della nuova vita della band, ispirato alle sonorità rock emotive dell’album di debutto e dell’era di “The Colour And The Shape”, “una risposta brutalmente onesta ed emotivamente cruda a tutto ciò che il gruppo ha sopportato nel corso dell’ultimo anno” e “una testimonianza dei poteri curativi della musica, dell’amicizia e della famiglia”. E se a quel carattere “brutale” e “crudo” si considerassero come alternative rigeneranti la raffinatezza e l’impronta intimistica che avevano contraddistinto quella perla artistica che è il disco numero due di In Your Honor? Le linee melodiche ed acustiche di brani come Miracle, Over And Out, On The Mend (non a caso…). Se la rabbia e il dolore, la serenità e l’accettazione e la miriade di punti intermedi, indicati come le chiavi di lettura dell’undicesimo lavoro in studio diventassero i temi protagonisti di un tour solista di Dave Grohl, voce e chitarra, in contesti differenti, meno rumorosi, più vicini a chi ha condiviso i medesimi sentimenti strazianti contrastanti?
O magari l’incipit per i membri della band nell’intraprendere un percorso parallelo, dare libera espressione ad urgenze espressive, nel “colore e nella forma” che più percepiscono aderenti al proprio sentire personale e professionale, a distanza di ventisei anni dall’uscita di The Colour and The Shape. Questo significherebbe la fine dei Foo Fighters? Forse. Ma probabilmente, ad oggi, con un vuoto così incolmabile su quel trono fatto di piatti e rullanti, preferirei mettere le cuffie, ascoltando le canzoni diventate colonne sonore di periodi cruciali, essere travolta da quella nostalgia sinonimo di crescita ed evoluzione nell’imparare a camminare di nuovo in direzione di strade non ancora esplorate. Preferirei fantasticare su un’ipotetica data futura per un’attesissima reunion, a maggior distanza di tempo, per cui anche il tempo è stato fattore fondamentale di rielaborazione del lutto, invece di leggere notizie spot sul toto-batterista. Preferirei immaginare l’esplosione di gioia nell’assistere a quel concerto epocale, nel vedere seduto alla batteria l’unico che ha già suscitato nel pubblico il brivido, quello inconfondibile che per ogni stacco fa saltare un battito del cuore: Oliver Shane Hawkins.