dark mode light mode Search Menu
Search

Carl Brave, fino a qui tutto bene

Carl Brave è qui per restare – uno che sta lavorando, costruendo – e vive gli step come traguardi intermedi per raggiungere quello status.

Un mio amico ha una bambina di cinque anni con il talento – tutt’altro che inespresso – del disegno. Traccia linee con qualsiasi strumento: matite colorate, penne, con la Apple Pencil sull’iPad del papà. Sempre più spesso mi ritrovo a commentare le sue opere, cercando di capire i mondi nascosti che riesce a portare alla luce attraverso uno sguardo sempre nuovo ed affascinante. Uno di quelli che mi ha colpito di più ritrae un’Allodola, le cui proporzioni raccontano perfettamente cosa per lei era importante e cosa invece non le interessava riprodurre, mentre lo riprendeva da una finestra, o più verosimilmente da un cartone animato. Quando vedo la copertina di Migrazione penso subito a quanto sia simile per forme e colori a quel piccolo capolavoro che Andrea mi aveva mandato su WhatsaApp. Ava si firma sempre, e in punti diversi della composizione. Stessa cosa fa Carlo (di qui in avanti Carl Brave) che ha scritto in basso a destra il suo nome esteso di battesimo, ossia Carlo Luigi, ma senza spazio, perché i bambini non hanno tempo da perdere e tendono sempre a togliere il superfluo. Carl Brave è un tipo semplice, uno di quelli che per fare un’intervista sceglie il marciapiede di Via Garibaldi a Trastevere, con i ragazzi che passano, lo riconoscono e lo salutano. Dopo di me, incontrerà la band per le prove del tour, con sullo stomaco – testuali parole – «solo un tramezzo al tonno».

Come procede il lavoro di preparazione al live?
È divertente e stancante. In questo momento stiamo riarrangiando i pezzi con la mia numerosissima band (dodici membri, ndr.) cercando di dare una seconda anima ai pezzi di Migrazione.

Siete più degli Slipknot.
Sì, ma senza growling (ride, ndr.).

Ripartiamo dall’ultima volta che ci siamo sentiti, in cui mi dicevi di essere in un momento di transizione: credi di aver trovato il tuo posto nel mondo o sei ancora in cerca di un equilibrio?
Non so dirti. Certamente non l’ho trovato dal punto di vista geografico, l’equilibrio, visto che Migrazioni è un disco nato in giro per il mondo: tra Tokyo e Lisbona, con l’obiettivo di farmi influenzare dalle culture e dai suoni che incontravo per la strada.

Eppure è molto romano-centrico come disco.
È un mix di tante cose, e tra queste, in larga parte c’è Roma. Che poi è il punto da cui tutto parte e cui tutto ritorna.

Cosa hai rubato dai tuoi viaggi?
Principalmente il sound, ad esempio ci sono i tom orientali ed un altro strumento che si chiama shamisen nei pezzi, anche se sono molto nascosti.

Mi dicesti che Polaroid lo avevi sognato prima ancora di produrlo, all’interno di uno di quei sogni lucidi che sono stati il focus della nostra ultima chiacchierata. Con Migrazioni mi sembra di capire che i viaggi siano stati reali e non onirici. È così?
Non sto più viaggiando con la mente come prima, piuttosto prendo un aereo e vado.

Quindi era un problema di budget prima?
Sì, forse è così (ride, ndr.). Ad ogni modo le migrazioni del disco sono nel contempo geografiche e interiori.

Cito Wikipedia: Carl Brave, pseudonimo di Carlo Luigi Coraggio, è un rapper, cantautore, produttore discografico ed ex cestista italiano. Alla luce di un disco così cantautorale e pop, senti che l’etichetta di rapper ti appartenga ancora?
Il rap “classicone” in effetti non è più così presente. Lo è un po’ di più dal punto di vista della scrittura, fatta di incastri e rime. Io ho sempre un po’ storto il naso quando mi hanno definito rapper, ma capisco che etichettare, catalogare e definire, sia qualcosa di estremamente utile per mettere le cose nelle giuste corsie, ma gran parte della musica oggigiorno non è riconducibile ed un unico genere. In Tarocchi, ad esempio, come anche nel brano con Noemi (Tabasco, ndr.) parlo di un periodo trasteverino attraverso un flusso di coscienza che ha tutte le caratteristiche del rap, pur non essendo ciò che la gente tende a definire tale.

Ah quindi il pezzo con Noemi non sarà la hit estiva che tutti si aspettano.
In molti ci rimarranno male. È un pezzo a cui tengo molto ma che si discosta fortemente da ciò che la logica avrebbe voluto che facessimo. Non è una “makumbata”, insomma. È più una Pianto Noisey, se vuoi, ma con un ritornello.

Ne hai fatte tante di cose diverse.
Ho fatto un disco techno, ho fatto le hit estive, appunto, e ho scritto decine di pezzi più cantautorali. Se un domani avessi voglia di cimentarmi con il reggaeton, lo farei senza problemi e non vorrei che la gente scrivesse “venduto”. Anche perché, per dire, vado spesso a serate reggaeton e le trovo divertenti.

Quindi posso scrivere un titolone da tabloid del tipo: “Carl Brave, il prossimo disco sarà reggaeton”?
(Ride, ndr.) Non credo accadrà, però mai dire mai.

E se ti ritrovassi a farlo, come sarebbe?
Il problema è che tutti lo fanno trattando i temi stereotipati, come lo scopare e le mign… (si mette la mano davanti alla bocca e si guarda intorno, poi sorride, ndr.) le brave ragazze. Io credo che provare a copiare il Bad Bunny di turno sia una stupidaggine. Io lo farei a modo mio, con le mie tematiche.

Credo tu sia uno di quelli che amano suggestionarsi per creare, no?
Assolutamente sì. Un po’ coi viaggi, come dicevamo, un po’ cercando banalmente di sentire tutto e di lasciar fluire le vibes di qualsiasi natura, perfino quelle negative.

Come ad esempio la paura?
Tu calcola che sul retro di copertina del disco c’è un disegno di topi. Fa parte di tutta una serie di disegni che ho fatto da bambino e che mi riportano nel passato, anche se francamente purtroppo non ho molti ricordi della mia infanzia. Ad ogni modo ti dicevo della paura perché quel disegno l’ho fatto dopo che a casa nostra ad Anzio si era presentato un topo e dallo shock ho finito per disegnare sorcetti in giro per giorni.

I gabbiani del fronte della cover te li sei perfino tatuati sulla schiena. È da tanto che hai con te queste “opere giovanili”?
I miei genitori hanno mantenuto i miei disegni e, ti dico la verità, ho intenzione di chiedere ad un mio amico artista di riprodurle sulle pareti della mia attuale casa. Ho sempre avuto voglia di usare questi gabbiani, ma non si è mai presentata l’occasione. Quando è arrivato Migrazioni ho pensato che non ci fosse situazione migliore di questa per farci l’artwork di copertina.

Chi ascolta i tuoi provini per primo?
Io lavoro spesso a casa ma ho anche uno studio a Prati. Questo stare sempre a contatto con strumenti e microfoni fa sì che le idee prendano subito una forma più ascoltabile – per capirci: non uso prevalentemente le note vocali dell’iPhone ma piuttosto vado a registrare la bozza col microfono. Le prime persone che lo ascoltano sono i miei genitori e alcuni amici. La cosa che faccio spesso è far ascoltare ad ogni persona la cosa che meno è nel suo mood, così da avere un feedback crudo e sincero, magari discordante. Ad esempio se ad un mio amico piacciono molto i pezzi elettronici, io gli faccio ascoltare l’opposto.

Li ascolti i loro giudizi?
Non sempre, mi servono giusto per farmi delle domande, poi l’ultima parola spetta a me.

Cambiamo discorso: Michael Jordan o LeBron James?
Ora come ora ti dico nessuno dei due, preferisco Jokić. Poi ho amato tantissimo LeBron perché io l’era Jordan non l’ho vissuta molto. Dei mostri sacri però il mio preferito è Bryant. Lui era in grado di lavorare su sè stesso in un modo che onestamente ho sempre stimato e provato a fare mio.

Nella musica hai messo un po’ di educazione cestistica?
Tantissimo. Kobe lavorava ogni giorno il doppio degli altri svegliandosi prestissimo e assicurandosi una sessione di allenamento in più rispetto agli altri. Si ritrovava a fine anno con trecentosessantacinque allenamenti in più dei compagni, ed è ciò che faccio anch’io nella musica. Faccio musica sempre, in modo ossessivo. Mi sono sempre spaccato il culo per fare questo mestiere. Poi ci sono gli illuminati, come thasup che magari si possono permettere di lavorare un giorno all’anno e fare il capolavoro. Io non sono uno di questi. Se lavori più degli altri, arriverai lontano.

Caratterialmente sei più uno Jokić (umile e profilo basso) o Butler (pieno di sè e consapevole)?
Butler
è fortissimo ed ha una storia incredibile. Poi ci hanno ricamato un po’ sopra fino a dire che sia il figlio di Jordan – e a me piace crederlo (ride, ndr.). Però sono sicuramente più Jokić umanamente parlando.

Cos’è l’hype per te?
È una roba di questi tempi, velocissimi. Si va su in un attimo e poi ci si riassesta. Quando sei la novità tutti ti sentono, poi diventi mainstream, un po’ per tutti, ma ovviamente l’hype è destinato ad evaporare e col tempo lo status un po’ si assesta. L’apice ormai l’hai toccato, non c’è più la novità, ma in compenso è lì che iniziano a crescere le reali fan base. La nostra nicchia musicale consolidata e affezionata. È stato così per tutti: dal sottoscritto fino ai vari Massimo Pericolo oppure thasup (a questo punto la tentazione di chiedergli quale sia stato il suo apice di popolarità è fortissima, vorrei capire da lui qual è questo “apice irripetibile” nella sua carriera, ma temendo possa essere quello avuto ai tempi di Polaroid, non tanto per la popolarità in sè, che di fatto è perdurata anche successivamente, con la carriera solista, quanto per l’iconicità e la novità rappresentata dal suo progetto con Franco126, decido di evitare. Anche perché “il passato è passato”, diceva Rafiki e dunque cambiamo discorso ndr.).

È possibile uccidere la tossicità dell’hype?
Ci sono alcuni artisti che non hanno più bisogno dell’hype. Anche loro hanno vissuto quelle fasi di cui ti parlavo, ma ora stanno lì, nessuno li può toccare perché sono talmente grandi che – al netto di alti e bassi fisiologici dal punto di vista numerico – restano icone assolute.

Chi sono, qui in Italia?
Marracash
, Calcutta, Cremonini, solo per citare i primi tre che mi sono passati per la testa (mentre mi parla ho la netta sensazione che sia uno che è qui per restare – uno che sta lavorando, costruendo – e vive gli step come traguardi intermedi per raggiungere quello status. Ad ogni step è come se si ripetesse la frase del monologo de L’odio“Fino a qui, tutto bene” – con la sostanziale differenza che lì il personaggio stava cadendo giù da un palazzo, mentre qui Carl Brave sta salendo, in un moto uguale e contrario alla gravità ndr.).

Ora sono un paio di volte che ci sentiamo e mi sembri un bravo ragazzo, quelli che a Roma si chiamano “tranquilloni”. Però immagino che per arrivare ad un certo livello sia necessario dire spesso di no.
Io sono cattivissimo (con voce da villain nei cartoon, poi ride, ndr.). In verità dico molto spesso di no. È perlopiù una forma di rispetto verso me stesso come professionista e una tutela nei confronti del pubblico.

Dimmi qualche “no” importante della tua carriera.
Ad esempio sui featuring: io se voglio un artista è perché lo sento perfetto per quel pezzo e perché lo stimo, i numeri non c’entrano. Diverse volte mi hanno detto «fai una featuring con lui che ha numeri impressionanti» e io ho detto no. Al contrario è capitato che mi consigliassero di non farlo con un artista e anche lì, mi sono opposto. Che poi se un artista sta particolarmente sulla cresta dell’onda magari ti fa una strofetta senza anima e rovina anche la tua parte. Altra cosa che mi fa dire di no è quando ti vogliono indirizzare sul mood del momento per un brano: se funziona una cosa che a me non piace o banalmente non va di fare, non la faccio e basta. Sono empatico, cerco sempre legami, ma non mi faccio mettere mai i piedi in testa.

Cosa ti dà più fastidio degli addetti ai lavori del settore musicale?
Quando un artista non ottiene un risultato o comunque delude un po’ le aspettative dal punto di vista numerico e tutto il settore lo apostrofa come “morto”.


Foto: Viviana Berti
Digital Cover: Jadeite Studio
Coordinamento redazione: Emanuele Camilli
Ufficio stampa Carl Brave: Help PR & Media Relations