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Lola Young non ha paura di dare voce al suo pop senza regole

Lola Young non vuole essere soltanto un altro nome tra le nuove voci femminili britanniche e anche senza un baricentro preciso, dimostra di saper parlare con forza e autenticità alla sua generazione

Che Lola Young fosse un’artista da tenere d’occhio, specialmente dopo il successo planetario ottenuto dalla sua Messy, era evidente. Eppure, si corre sempre un bel rischio quando un’artista giovane, capace di scalare le classifiche musicali e persino i vertici delle piattaforme digitali sempre più trasversali decide di fare della vulnerabilità e dell’autodistruzione il centro della propria estetica. Fino a che punto può risultare autentica la sua confessione? I’m Only F**king Myself, il nuovo album della cantautrice britannica, si presenta come un addio feroce nei confronti dell’adolescenza, un autoritratto sonoro in cui sesso, relazioni tossiche e dipendenze diventano il materiale narrativo perfetto per tracciare uno spaccato di vita. Non si tratta di una vera novità per il pop contemporaneo. Basti pensare alle colleghe Billie Eilish e Olivia Rodrigo, che hanno fatto dello stile confessionale un genere capace di trascendere le pareti della loro cameretta (o dello studio di registrazione).

Il concetto di vulnerabilità è forse diventato una parte preponderante della cultura mainstream? C’è da chiederselo ascoltando questo progetto discografico, affrontato dalla Young con una brutalità lirica e sonora che a tratti spiazza. Il punto di forza dell’album è indubbiamente la voce della cantante londinese, capace di passare da registri graffianti a confessioni quasi sussurrate. Non è chiaro se lavarietà stilistica dell’album, che spazia tra indie-pop, chitarre acustiche, distorsioni rock e new wave (oltre ad un tocco di grunge che non guasta), sia effettivamente un segno di ecletticismo e versatilità, oppure la ricerca ansiosa di un’identità ancora tutta in divenire, già portata avanti in lungo e in largo con il precedente LP This Wasn’t Meant For You Anyway. La stessa copertina, che la ritrae intrecciata con una bambola gonfiabile, ribadisce un concetto importante a livello sociale e culturale: spesso e volentieri siamo solo capaci di farci del male da soli, spettacolarizzando a tutti i costi la nostra vita, dando in pasto gratuitamente le nostre emozioni, le nostre ansie, le nostre preoccupazioni e le debolezze. Mentre molte sue coetanee giocano con il linguaggio della vulnerabilità, declinato in termini di empowerment, resilienza, o ironia pop, Lola propone è piuttosto un diario sonoro irrisolto, “sporco”, pieno di contraddizioni.

Co-scritto e co-prodotto integralmente insieme a William Brown e Conor Dickinson del duo britannico Manuka e da Jared Salomon (Solomophonic), non si tratta di un prodotto pop levigato, piuttosto una testimonianza bruciante e disincantata, ma al tempo stesso liberatoria, di un’artista consapevole di essersi abbandonata a vizi e piaceri, trovando nell’autosabotaggio la risposta concreta alle sue domande. Pezzi come F**K EVERYONECan We Ignore It! sembrano più esercizi di dissonanza che canzoni pop, mentre Spiders si rifugia in una sorta di grunge anni Novanta rivisitato, tanto nostalgico quanto costruito in ogni sua parte. Il singolo rap-pop One Thing è uno dei più convincenti, insieme alla dissacrante D£aler e l’esplicita Post Sex Clarity. Non sappiamo se resisterà al tempo, ma Lola Young non vuole essere soltanto un altro nome tra le nuove voci femminili britanniche: anche senza un baricentro preciso, dimostra di saper parlare con forza e autenticità alla sua generazione.