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Deci con “Metropoli” illumina le crepe

“Metropoli” di Deci è un’opera prima che non chiede di essere compresa, ma ascoltata. Un esordio potente che non abbaglia, ma illumina le crepe

C’è un fenomeno affascinante e sinistro che si verifica nelle grandi metropoli e riguarda la luce. Essa non si disperde, non rimbalza e non ritorna. Viene assorbita. Il cemento, l’asfalto, le vetrate annerite trattengono ogni barlume, inghiottendolo in una sorta di crepuscolo perenne. Il cielo sopra una città non è mai davvero buio, ma neanche mai davvero illuminato: è opaco, denso, immobile. È la perfetta metafora di un’esistenza urbana fatta di attese e iperattività, di sovrastimolazione e isolamento. Nel suo album d’esordio Metropoli, Deci racconta proprio questa condizione sospesa. Lo fa con una scrittura chirurgica, essenziale, capace di rendere la cupezza senza mai risultare artefatta. La produzione, curata nei minimi dettagli, è al servizio dell’emozione. E tutto, in questo esordio, sembra ruotare intorno a una domanda: cosa succede quando la città, invece che accoglierci, ci restituisce solo il nostro eco? «Nella mia scrittura c’è sempre lo zampino di Autori con la A maiuscola – racconta Deci – ed è vero, la mia musica flirta sempre col dolce e l’amaro. Come se fosse un bisogno viscerale: dire cose dure, ma con una ciliegina sopra». Deci ha iniziato il suo percorso musicale a trent’anni. Una scelta controtendenza in un’epoca in cui si idolatra la precocità. «Il mercato è feroce, ma ho smesso di preoccuparmi della mia età quando ho capito che questo disco nasceva dal profondo. Anni di terapia mi hanno portato qui. Non potevo farlo prima, non sarei stato pronto».

Metropoli si apre con Astrale, e da lì in poi si snoda in un viaggio urbano che sa essere tanto introspettivo quanto cinematografico. Seduta (Intro) introduce il tema del viaggio psichico, tra confessione e metafora; H24 è una corsa senza fiato, un loop ansioso dentro la quotidianità. Ma è con Cascate che il disco tocca una delle sue vette: una ballad che fa esplodere il dolore, lo rende tangibile. «La mia prima canzone si chiamava Invisibile. Oggi mi sento visibile, in primis a me stesso. Ho imparato ad amare quello che vedo, perché è figlio della fatica». La voce di Deci è lo strumento con cui scava, con cui apre ferite e le mostra. Non c’è compiacimento, ma c’è una necessità. E c’è una coerenza emotiva che si riflette anche nella produzione, spesso minimalista, a tratti dissonante, sempre attenta a non coprire la fragilità, ma ad accompagnarla. «Ho sempre avuto paura di decorare troppo, di “impellicciare” il brano. Voglio che l’elettronica sporchi, non abbellisca. Che sia come un secchio di fango su un vestito da sposa». Il senso di disillusione attraversa tutto il disco. «Ho creduto per anni che sarei riuscito a finire l’università. Non è successo. Ho scelto la musica, e l’ho fatto buttandomi nel vuoto. È stata la mia scelta più folle. E anche la più giusta». Il videoclip di Americana racconta bene questa visione: un tram in corsa, che non si ferma. Una fuga che è anche una dichiarazione d’intenti. «Inizialmente la musica era un rifugio, un modo per non affrontare. Poi è diventata uno specchio. Oggi non voglio scappare più: voglio viverci dentro, in questo luogo che ho costruito». In Metropoli, ogni brano è un tassello di una topografia emotiva precisa. E non mancano le domande esistenziali: A cosa servono i grattacieli, che chiude il disco, è un inno senza risposta, una preghiera urbana senza fede. «Quando le crepe diventano voragini, serve fermarsi. L’ho fatto. E ho trasformato quel vuoto in musica. Anche se un giorno dovessi scrivere solo per me stesso, non smetterò mai. La musica sarà sempre la mia àncora».

Tra synth anni Ottanta, cantautorato spoglio e influenze ambient, Deci compone un mosaico che non ha paura della contraddizione. «Nel disco, la parte da “architetto” del suono ha avuto il sopravvento. Ma voglio crescere anche come esecutore, trovare un equilibrio tra chi scrive e chi interpreta». Un altro elemento interessante è il modo in cui Deci sceglie cosa dire e cosa lasciare sospeso. «Mi piace l’idea di un messaggio diretto ma aperto. Non tutto dev’essere spiegato. Il mistero, anche nel dolore, aiuta a costruire immagini più forti». Il progetto Metropoli è nato senza maschere. Ma Deci, con lucidità, sa che il lavoro su di sé non è mai davvero finito. «Scrivendo, riesco ad essere davvero sincero. Ma nella vita vera baro ancora con me stesso, spesso. C’è molto su cui devo lavorare». Alla fine, resta una domanda che attraversa tutto il disco: cosa rimane di noi nelle città, quando ce ne andiamo? «Spero che le mie canzoni possano essere una traccia, una frase sui muri. Magari un giorno, nel buio, quella frase sarà la luce per qualcuno». Metropoli è tutto questo: un’opera prima che non chiede di essere compresa, ma ascoltata. Un esordio potente che non abbaglia, ma illumina le crepe.

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