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All’interno delle crepe di Cassio

Tra caos e creazione, Cassio scolpisce canzoni in continua trasformazione: frammenti di bellezza imperfetta, nate da flussi di scrittura inarrestabili. Musica che non cerca ordine, ma verità dentro il disordine

In fisica, l’entropia misura il grado di disordine di un sistema: tutto, col tempo, tende a dissolversi, a perdere struttura, a confondersi con l’ambiente. Ma non sempre il caos è una minaccia. A volte è una spinta creativa, un’energia che modella e trasforma. La musica di Cassio sembra abbracciare questa legge naturale, evitando l’ordine precostituito, lasciando che le sue canzoni si sgretolino e si ricompongano, come se la bellezza non stesse nella perfezione, ma nelle crepe, nelle distorsioni, asimmetrie che compongono il mondo. «Quello che sto facendo ora è proprio un allenamento, un esercizio sulla scrittura. Ho provato mille tecniche e ultimamente la new wave, la mia tecnica di scrittura, è scrivere a ruota libera come se dovessi scrivere un comunicato stampa che parla della canzone e poi da lì, rubare cose… Magari scrivo un papiro di sei pagine dove descrivo senza freni tutto quello che mi viene in mente, poi lo rileggo mille volte e cerco di tirarci fuori l’essenza di quella cosa che voglio dire. Perché una canzone durerà tre minuti al massimo e tre minuti sono un cazzo per quello che voglio dire. Alle volte è davvero poco e faccio una fatica clamorosa. Non finisci mai, è come un cane che si morde la coda. Riascolto le versioni precedenti, le smonto, le ricostruisco, faccio infinite modifiche, sia sul testo che sulla produzione. Vorrei che qualcuno mi fermasse al momento giusto, perché, fosse per me, mi ci ammalerei».

La frase di esordio di Mamma racconta perfettamente l’essenza della tua musica. Parli della neve bianca che, ai bordi delle strade, diventa nevischio sporco. Questo senso di “sporcatura” della purezza è la tua vera cifra stilistica, non è così?
Ora che me lo fai notare, sì. Anche se, quando ho scritto quella frase, non avevo in mente l’idea di condensare in poche parole la mia intera visione della distruzione della perfezione. È come con l’arte: a volte i critici danno interpretazioni incredibilmente dettagliate delle opere, ma spesso l’artista non aveva alcuna intenzione di comunicare proprio quel messaggio.

Cosa intendi?
L’arte è divertente perché è spesso raccontata da chi di arte non capisce un cazzo, o meglio, la capisce come si capisce una dichiarazione dei redditi.

L’ultima volta che ci siamo sentiti, mi avevi parlato del tuo rapporto conflittuale con l’elettronica. Direi che avete fatto pace, perché questo è un disco decisamente elettronico, giusto?
Sì, assolutamente. I miei brani nascono sempre “chitarristici”, e quasi ho timore, paura di allontanarmi troppo da quello che ho aggiungendo strati e livelli. Mi da noia l’idea di avere velleità di “impellicciare” un pezzo. Metterci i lustrini. Uso gli strumenti che ho in modo becero, e se uso l’elettronica deve servire a gettare una secchiata di merda su un abito da sposa.

Il tuo talento, per me, è proprio questo: scavare fino a ciò che è vero, senza paura di rappresentare la realtà per quello che è. Se la vita è una merda, dal tuo punto di vista, è inutile rivestirla di armonia, candore e purezza.
Lo faccio senza problemi, perché non mi interessa sembrare perfetto. Essere livornese, in questo senso, mi aiuta molto.

Perché?
Perché a Livorno, lo sport nazionale è il fallire nelle cose. Se te fai una cosa e la fai troppo bene, fino in fondo, fino a raggiungere un qualche merito, la città perderà empatia con te. Qui a Livorno ti prendono a pedate. Nel senso: a Livorno vince quello che poteva fare qualcosa di figo e invece non l’ha fatto perché si è autosabotato. Livorno è questo. E in quel caso me la sento un po’ così. Riconosco proprio la mia voglia di smerdare le cose. Quando mi rendo conto che una cosa diventa “ascoltabile” c’è sempre una parte di me che muore dalla voglia di … rovinare tutto.

E infatti c’è un brano che hai dedicato a Livorno…
Sì, ed è un pezzo molto sentito. È uno di quei brani che ascolto più di tutti. Anche lì – anzi, a maggior ragione, proprio per i motivi che ti dicevo – ho sentito il bisogno di rovinare tutto. Quando qualcosa diventa troppo orecchiabile, una vocina dentro di me mi spinge a sabotarla. Quel brano, nella mia testa, aveva una struttura molto vicina a Tenco. E più lo cantavo, più mi sembrava di andare in quella direzione. Non che mi dispiaccia, anzi, Tenco è una grande fonte di ispirazione. Ma sentivo il bisogno di renderlo mio, e così ho deciso di pitchare la voce, di passarla attraverso i miei distorsori, e soprattutto di registrarla con un 58 di merda (un microfono dinamico anziché a condensatore, più adatto per una esibizione live che per una incisione in studio ndr.), che suonasse male, che quando uno l’ascoltasse dicesse “macchècazzo”, “ma perché?”. Non volevo perdesse tutto il suo romanticismo.

Il tuo grande dono, quindi, è mandare tutto in vacca?
Sì, chiaramente. Però queste sono le cose di cui un coglione qualunque si può vantare nel momento in cui ha raggiunto uno status symbol. Nel senso, mi spiego meglio. Tutto ciò lo sarà fino a quando non arriverà la fama mainstream. Perché ad esempio, Nick Cave o Tom Waits o migliaia di altri artisti come loro scelgono modi di comunicare alternativi e a volte decisamente contro mercato, a me piacciono per quello; mi domando solo perché nel mio caso il mondo cerca spesso di pettinare le mie cose per renderle fruibili ed intelligibi alla maggior parte… forse perché non ho la personalità di Tom Waits… ed è probabile. Il mio tocco nelle cose non viene letto come personalità ma solo autolesionismo. Fanculo.

Mi piace questo tuo lato autolesionista. Ma non pensi che qualcuno potrebbe vederci una grande opportunità?
Me lo auguro, ma non è semplice. Il mondo, oggi come sempre, funziona con ciò che è pettinato, chiaro, inequivocabile. A prescindere da cosa ne sarà di me come artista, spero che la musica prenda una piega diversa e che si scelga di contemplare la grandezza dell’imperfezione. Perché non c’è nulla di più noioso di ciò che è prevedibile, e la perfezione è infinitamente più prevedibile dell’errore.

Parliamo del mare. De André disse: “Il mare separa e unisce popoli e continenti. Nel momento in cui li separa, stimola il sogno e l’immaginazione. Nel momento in cui li unisce, ritrae la realtà”. Tu che rapporto hai con il tuo mare di Livorno?
Fai conto che la mia vita è stata questa fino più o meno ai miei quattordici anni. Appena finiva la scuola, subito da giugno a settembre, io la mia mamma e i miei fratelli si partiva la mattina, tutte le mattine, ogni cazzo di giorno che dio ci rimetteva al mondo, si partiva e si andava al mare con le ghiacciaine e con la spesa come se tu andassi una settimana in campeggio e invece tu andavi la mattina al mare, e pranzavi al mare, poi cenavi al mare e poi tornavi a casa verso mezzanotte la sera. Tutti i giorni. Tutti i cazzo di giorni.

Cassio, foto di Mattia Zoppellaro

Ti piaceva?
Mi sono divertito tanto. Ti dico la verità. C’avevo gli amici della scuola, e poi d’estate c’avevo gli amici del mare dove andavo io. Erano proprio gruppi diversi. Era come vivere due vite parallele. E mi sono divertito tanto. L’ho apprezzato tanto.

E poi?
Arrivato a quattordici anni, più o meno, ho smesso proprio di andarci. Sono andato sempre meno sempre meno sempre meno. Fino a che, adesso, in un’intera estate posso andare a fare il bagno una o due volte. Vado come… non so dirti chi, ma vado e faccio un tuffo, mi asciugo e vado via. Torno a casa.

Perché?
Non lo so. Mi piace guardarlo, sapere che c’è. Quando mi trovo nei posti dove il mare non c’è, mi sento che mi manca un’apertura di quel tipo lì. Proprio a livello mentale. Non ne ho bisogno reale, fisico. È come un placebo, è come il subutex, è come non lo so… come quando senti che arriva l’astinenza ma in tasca c’hai ancora l’ultima botta.

Lavori molto per immagini. Mi piace il fatto che le immagini che scegli siano autentiche, poetiche ma quotidiane. Ad esempio, nel disco descrivi i fiori sulle tovaglie, con un senso di nostalgia e decadenza.
Amo scrivere di cose piccole, cose che magari non contano niente per qualcuno ma contano tanto per me. Come i dettagli nelle foto. Io ho delle fotografie in testa, immagini di determinati momenti, che non ti so nemmeno collocare esattamente nel tempo ma di cui sento addosso il profumo. Credo che anche con un solo dettaglio puoi raccontare un intero mondo. Ma quando descrivo la tovaglia a fiori, lascio aperta la possibilità di immaginare chi è seduto attorno a quel tavolo.

Si dice che la buona scrittura mostra, non spiega. Il famoso “show, don’t tell”. Tu sei bravissimo in questo. Come nasce una tua canzone?
Di solito da una frase. Ad esempio, per una canzone che tu hai già ascoltato, tutto è nato da una cosa attorno “alla gabbia”, “quando ero piccolo, vivevo dentro a una gabbia”. Una volta che ho scritto quella frase lì, è venuto tutto il resto. Liscio, dritto, subito. Cerco sempre di scrivere le cose nel modo più elementare possibile. Quando ero più piccolo e ancora non cantavo, riempivo interi quaderni di poesie. Oggi, rileggendole, mi viene il vomito. Erano pretenziose, costruite, piene di orpelli inutili. Erano il corrispettivo musicale di un assolo di chitarra: tecnicamente ricercato, coi riccioli, ma senza un vero scopo. Erano cose che scrivevo per me, ovviamente non le ho mai fatte leggere a nessuno. Non avevo nessuna aspettativa che qualcuno le leggesse. Anzi, non l’avrei mai voluto. Erano comunque scritte troppo costruite, guardavo in un punto troppo in alto che se le rileggo adesso non capisco nemmeno che cazzo volevo dire. Spesso l’errore, che faccio anche io ancora alle volte, è quello di voler edulcorare troppo le cose o cercare di portare in scrittura un’immagine più larga, troppo larga, che alla fine non premia nessuno. E alla fine, per me, quella cosa che sposta di più rimane il dettaglio. Come la tovaglia coi fiori. Tolgo tutte le cagate dei casi e cerco di dirla nella maniera più poetica e stupida possibile.

È anche per questo che i tuoi brani spesso sono così brevi?
Sì. Ho sempre ammirato chi riesce a concedersi il lusso di dilatare i tempi, ma non credo di aver ancora quel tipo di tocco. Ad esempio, a me m’è successo di vedere dei film che lì per lì m’hanno annoiato e di dire “madonna che brutto”, e invece anni dopo di dire “cazzo questo film è una bomba”. Magari nel momento in cui l’ho visto non c’avevo gli strumenti, non ero calato nella prospettiva giusta però quelle son cose di sicuro per pochi. Magari col tempo si impara ad apprezzare altre cose. Io, per dirti, la prima volta che ho visto Zodiac, e l’ho visto al cinema, mi sono rotto le palle tantissimo. Forse mi sono addormentato. Mentre ora, che lo riguardo da grande, lo riguardo volentieri proprio perché di base ti risulta addosso “leggero”. Oppure, Non è un paese per vecchi: quando l’ho visto da bimbetto m’ha rotto le palle anche lui, troppo tutto dilatato, e ora lo guarderei in loop perché non è entrante, non c’è nemmeno una canzone, non c’è colonna sonora, è tutto sempre nel silenzio e se lo guardi è figo. Prima non ero abbastanza attento per pensare “questo può succedere, ecco”. Però di sentire una cosa che prima non mi piace e dopo mi piace, è dura. Però per dirti anche, vedi Parthenope di Sorrentino, esteticamente è clamoroso, mi fa impazzire, c’ha delle frasi fortissime ma c’ha anche tantissime parti di film che per me potevano non esserci. Ho sviluppato un’ossessione nel rimuovere tutto ciò che non è strettamente necessario. Sì, lo ammetto.

Ti concederai mai un’intro musicale lunga come i Pink Floyd?
Mi chiedo sempre come ti puoi permettere di acquisire quello status, quel knowledge. È quella cosa che io invidio tantissimo. Perché a me alle volte non riesce questa cosa. A me non riesce dilatare i tempi nella musica. Magari ideologicamente lo potrei fare, poi però quando mi ci trovo dico “cazzo che palle”. La mia sindrome è quella della noia, anche a tavola o al bar, se dico qualcosa cerco di farlo nel modo più conciso e celere possibile, così da non annoiare nessuno, me per primo.

Ti sembra quasi di ingannare l’ascoltatore, quando dilati troppo?
Sì, può darsi. O così almeno la penso io, la percepisco io. Mi fa sentire quasi in colpa. Ma è anche vero che sono dei Gemelli e sono sempre in conflitto con me stesso quindi qualunque cosa faccio mi autopunisco subito, e mi blasto subito, e mi gambizzo subito.

Quando è stata l’ultima volta che hai scoperto qualcosa di importante su di te?
Mentre provavo ora in questi giorni a cambiare il testo del brano dedicato al mio babbo, ho provato a fare questa cosa – beh in realtà pensa a quanto autoreferenziale sono, non è una cosa che ho visto, ma è una cosa che ho fatto io, che mi ha scoperto presente in quel momento lì della mia storia. Un autoreferenzialità schifosa. Però vabbè, te la dico… Mentre scrivevo questa cosa, mi sono reso conto, come un’epifania, sul quanto non avessi capito un cazzo. Io sono stato arrabbiato, Mi son sempre portato dentro tanta rabbia per la separazione della mia famiglia che trovavo ingiusto tutto, cercavo di stare dalla parte del più debole, e in quel caso era mamma. Avevo capito tutti, compianto tutti, tranne lui. Non mi ero mai messo davvero nei suoi panni. E per la prima volta, mentre provavo a scrivere questo testo, andavo a ruota libera e scrivevo e raccontavo com’è che era andata questa storia. Ripensavo a delle scene, a degli episodi, e ripensavo a questo momento, ed è stato come vedere un film di cui ero stato solo un personaggio secondario. Mi sono sentito un coglione.

Cassio, foto di Mattia Zoppellaro

Cos’era successo?
Quella mattina che lui era andato via di casa, mio babbo mi ha accompagnato a scuola. Era una cosa strana che mi accompagnasse a scuola perché in genere andavo coll’autobus, ero in prima superiore credo, lui mi parlava come si parla a un bimbo di quattro anni se bisogna dargli una brutta notizia, non lo avevo mai visto piangere prima, e forse neanche dopo. Prima di scendere dall’auto mi ha detto: «Babbo ti vuole bene. Ora sentirai dire un sacco di cose brutte su babbo, ma te devi sapere che babbo ci sarà sempre per te». Una di quelle scene cringe che se riguardi la tua vita indietro la skippi proprio. Quelle scene “piangi te, piango io”. C’era questa macchina che sembrava Dio, e mi son reso conto di quanto io non avessi capito tutto il dolore suo, che magari la vita l’ha messo in una condizione di sbagliare, però cosa ci doveva fare? Lui ha fatto di tutto per essere presente, per essere una persona buona con me, con i miei fratelli, con la mia mamma in generale.

E fino a quel momento non avevi mai pensato alle cose dal suo punto di vista?
Io sono sempre stato tanto arrabbiato, per anni ho guardato tutto solo dalla prospettiva di mia mamma, dalla mia. Nessuno ha mai pensato quanto potesse aver sofferto lui. Tutti guardavano dal lato della mia mamma. E nessuno si è mai posto il problema di come potesse stare lui. Scrivendo il testo della canzone che gli ho dedicato mi sono accorto di questo. Mi son sentito davvero piccolo, veramente sopraffatto, veramente in colpa, mi son sentito stupido che arrivo ora a trentaquattro anni “ah! ora ho capito”. Cioè, brutto coglione è vent’anni che è successo questa cosa e te ne sei accorto ora? È stata una cosa che mi ha spostato. E forse questa canzone serve a ricucire le ferite.

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